L’ARTIGIANO, LO STORICO E L’INTERPRETETRA STORIOGRAFIA FILOSOFICA E APPROCCIO SPECULATIVO

Fabio Grigenti[1]

RIASSUNTO: Il tema centrale del saggio è la questione del rapporto tra storiografia filosofica e approccio speculativo. Il testo di riferimento è il volume di Gregorio Piaia, Il lavoro storico filosofico, Questioni di metodo ed esiti didattici (Padova: Cleup, 2001). Nello svolgimento si analizzano le caratteristiche dei differenti tipi di ricostruzione del passato della filosofia, dando particolare importanza ai concetti di “metodo” e di “interpretazione”. Nelle conclusioni si sostiene che storiografia filosofica e approccio speculativo esprimono tendenze contrarie entro delle possibilità comprese tra limiti estremi.

PAROLE CHIAVE: Storiografia filosofica. Approccio speculativo. Metodo. Interpretazione.

Vorrei iniziare con una citazione:

L’artigiano che introduce il visitatore nel proprio laboratorio manifesta sovente un duplice stato d’animo: da una parte il compiacimento nel mostrare, oltre al prodotto, anche il luogo e gli arnesi del suo lavoro; dall’altra un certo pudore misto a ritrosia, come se il visitatore fosse un intruso – e lo è, in effetti – che viola con lo sguardo oggetti e strumenti che fanno parte della sfera personale dell’artefice. Qualcosa di analogo avviene quando lo storico apre, sia pure in senso metaforico il proprio atelier lasciando che l’occhio del lettore esamini e valuti principi, criteri, categorie che stanno alla base del suo lavoro di ricerca: l’attrezzatura, insomma, con cui si procede nella ricostruzione del movimento di idee. Un “lavoro” che, per la compresenza di abilità tecnica e di gusto interpretativo, di progetto d’insieme e di cura meticolosa dei particolari, presenta punti di contatto con l’attività dell’artigiano, anche se quella materia così impalpabile che sono le idee potrebbe apparire assai diversa dal legno, dai metalli e dagli altri materiali manipolati nelle botteghe d’arte. (e.g. PIAIA, 2001, p. 9).

Questo passo mi è particolarmente vicino. Esso pone in analogia due figure le quali, in diversa maniera, mi riguardano. L’artigiano occupa il centro del mio attuale lavoro di ricerca, nel quale sto mettendo a tema il nesso tra la capacità di “fabbricare” e la natura del sapere che ogni costruire richiede. Vi è una perfetta completezza nell’operare di qualunque artefice: questi non solo dispone di una teoria concernente gli strumenti e la materia degli oggetti che produce, ma possiede anche un protocollo operativo costituito da operazioni manuali e tecniche in base al quale li fabbricherà. Sarà forse per questa integrazione tra la mente e la mano che molte culture hanno individuato nel fare artigianale l’esempio di una attività superiore, al punto da indicare in esso la causa e il principio dell’esistenza del mondo e degli uomini.

La seconda figura, quella dello storico, mi importa perché io mi sono formato come storico della filosofia e ho cercato di contribuire allo sviluppo di questo campo di ricerca, anche se ancor oggi nutro dei seri dubbi circa la natura di questo mestiere. Più precisamente: mentre ho un’idea abbastanza chiara del modo in cui procede un falegname, mi ritrovo invece incerto a definire chiaramente il senso generale del lavoro storiografico. In particolare, ciò che non riesco a delimitare con esattezza è lo scopo generale del mio lavoro; mi chiedo: si tratta di una “mansione” puramente interpretativa, che devo condurre senza riservare particolare riguardo alla materia di partenza, o di un compito che deve produrre una ricostruzione “oggettiva” di ciò che mi si presenta come “traccia” o “reperto” del passato? Posso affidarmi liberamente alle mie intuizioni e alle mie convinzioni filosofiche o sono tenuto a seguire con rigore un certo protocollo di metodo?

Nel seguito intendo dire qualcosa su questa alternativa proprio a partire dalla metafora dell’artigiano usata da Gregorio Paia, tenendo soprattutto presenti le sue convinzioni circa lo statuto e gli scopi dell’impresa storiografica. In particolare, mi rivolgerò alle indicazioni e ai temi discussi nel volume Il lavoro storico filosofico. Questioni di metodo ed esiti didattici, apparso nel 2001 e in seconda edizione nel 2007. In questo lavoro Gregorio Piaia ha raccolto una serie di contributi teorici e metodologici dedicati al tema del “fare storia della filosofia”, che egli considera come una attività  caratteristica – assieme ad altre - della cultura occidentale moderna. Secondo Piaia le nostre abitudini concettuali, le nostre opinioni e le nostre scelte sono anche il prodotto di una particolare di una particolare abito intellettuale che egli chiama «coscienza storica». Il rapporto col passato è divenuto parte essenziale del modo in cui noi ci spieghiamo il mondo e cerchiamo di assumere posizione in esso. Per questo, il termine «coscienza storica» non esprime un atteggiamento psicologico specifico o qualche altra disposizione naturale, ma l’emergere di una pratica intellettuale, la cui completa maturazione può essere fatta risalire all’epoca moderna. Non solo, nota Piaia, ma come tutte le abitudini acquisite, essa si declina in maniera problematica e non univoca. Per quanto attiene al compito specifico che attende lo storico nella ricostruzione del passato della filosofia, il primo elemento problematico è costituito dalla divaricazione tra “approccio speculativo” da un lato e “pura erudizione” dall’altro, tema che Piaia esemplifica discutendo con estrema finezza la contrapposizione tra Croce e Garin. Si tratta, egli scrive, di una «vicenda esemplare» nella quale è possibile individuare gli esiti più avanzati della parabola dello storicismo italiano (e forse dello storicismo tout court, sottolineo io) ovvero «dalla pretesa neohegeliana di ingabbiare la storia entro categorie astratte» all’abbandono di «ogni pretesa teoreticistica», in favore di un approccio metodologico alla problematica storica, capace tuttavia di non perdere l’originaria ispirazione filosofica delle dottrine trattate. Gregorio Piaia non nasconde la propria simpatia per il «pluralismo filosofico» su cui insiste Garin, anche per la ragione (e su questo sono pienamente d’accordo con l’autore) che esso garantisce di fatto una maggior libertà di movimento sul terreno concreto della pratica storiografica, consentendo agli storici della filosofia che aderiscono a differenti visioni del mondo di «trovare un accordo nell’atto di “lavorare”, in un confronto costruttivo che si pone il fine di capire e non di sopraffare».

Ho citato questo breve passaggio per esemplificare quello che io ritengo l’aspetto essenziale e più importante del libro di Piaia: il richiamo ripetuto e convinto al “lavoro” al “mestiere” dello storico e al “fare” storia della filosofia. Credo allora che l’analogia tra artigiano e storico proposta dallo stesso Piaia non vada intesa quale una semplice metafora, ma come espressione di una relazione ben più profonda e strutturale. Io credo che essa possa guidarci con profitto in una breve discussione circa il problema del rapporto tra storiografia filosofica ed approccio speculativo nella ricostruzione del passato, anche questo un tema particolarmente caro a Gregorio Piaia.

Va innanzitutto evidenziato che lo storico e l’artigiano hanno di fronte il medesimo compito generale: reperire e trasformare una materia preesistente in un prodotto formato secondo un’idea o un progetto. Le fonti e i documenti, con le informazioni in essi contenuti, sono per lo storico gli “elementi materiali” primi, dai quali egli dovrà partire nella sua ricostruzione. Essi funzionano come veri e propri mattoni, che possono essere disposti in maniera diversa, ma la cui solidità deve essere garantita, pena la caduta dell’edificio. Ciò significa: il fare storico richiede una  preliminare conoscenza dei materiali di base, che sono i testi e la lingua in cui questi sono scritti. Senza tale requisito nessun lavoro di restituzione del passato può essere considerato credibile. Ma la semplice presa visione dei materiali di partenza non basta. Ogni lavorazione presuppone un metodo più ampio, ossia una buona pratica che si svolge secondo operazioni non casuali, ma che devono essere fissate in modo univoco e rigoroso. La prima regola di tale protocollo dispone che lo storico non proceda senza aver prima esplorato attentamente il campo di indagine in almeno due ulteriori direzioni: lo stato di avanzamento degli studi e il contesto più generale in cui si situa l’oggetto. Egli adotterà poi degli accorgimenti aggiuntivi, alcuni dei quali dipenderanno dalle sue convinzioni o da altri aspetti della sua personalità; nel loro insieme questi costituiscono quella “variabile individuale”, la cui inevitabile presenza non rappresenta necessariamente un elemento deteriore, ma può talvolta essere la misura aggiuntiva di una ricerca originale.

Non va mai dimenticato che, al pari di ogni altra forma di artigianato, anche la buona o cattiva storiografia sarà giudicata in base ai suoi prodotti, che sono i libri, i saggi o gli articoli - cioè forme del testo - la cui buona o cattiva fattura presuppone il controllo di una tecnica di scrittura e una chiara coscienza della struttura che il lavoro finale deve assumere sia in relazione alle richieste degli editori sia in riferimento a ciò che la comunità scientifica si aspetta. Una storia romanzata rimane qualcosa di effettivamente diverso da un resoconto condotto secondo un protocollo di indagine rigoroso e condiviso. Ciò non implica che la prima sia “inferiore” o “meno vera” del secondo, bensì solo che si tratta di operazioni non assogettabili agli stessi criteri di giudizio. Per tale ragione, allora, non andrebbero confuse tra loro.

Quanto abbiamo detto vale anche per il problema del rapporto tra approccio speculativo  e storiografia filosofica. Non credo possa essere messo in questione che si tratti di modalità alternative di avvicinarsi al passato. Troppo diversi sono i presupposti che presiedono all’una o all’altra operazione. Il primo di questi è la diversa opinione che lo storiografo della filosofia e l’interprete (userò queste due espressioni per comodità e per rendere immediatamente identificabili i due approcci) hanno circa la genesi delle idee e dei sistemi di concetti. Per il secondo il pensiero si forma per via di astrazioni successive e si esprime in un linguaggio disincarnato da ogni lingua esistente che può parlare direttamente a chiunque sia disposto ad ascoltarlo, superando ogni barriera spaziale e temporale. Vi possono essere stati fraintendimenti o dimenticanze nel processo di trasmissione, ma il detto originario è sempre di principio accessibile nella sua purezza scevra di incrostazioni dovute alla tradizione. In una parola: il pensiero nasce e vive al riparo da ogni condizionamento storico. Per gli storiografi non speculativi vale esattamente il contrario: le idee e le loro espressioni testuali vanno comprese nella loro epoca e in riferimento a un contesto più ampio costituito da determinanti di varia natura. Lo storico della filosofia considera l’oggetto del suo interesse come parte di una forma di vita e il suo significato come effetto della connessione con gli elementi che la strutturano. Egli pensa che ogni reperto si sia formato in un tempo che non è il nostro tempo e che a questo tempo esso vada sempre ricondotto. Per lo storico, in definitiva, la distanza temporale che lo separa dall’oggetto di ricerca non può mai essere interamente colmata: essa va invece mantenuta a garanzia di una rigorosa comprensione. Nella prospettiva speculativa, al contrario, il tempo trascorso viene tendenzialmente contratto all’attimo in cui accade l’atto interpretativo. Questo momento coincide inevitabilmente col presente, che finisce per valere, con tutte le sue determinati “spirituali” e “materiali”, come unico orizzonte di riferimento temporale. Per l’interprete tutto diviene contemporaneo, cioè fuso assieme in una sorta di astratta atemporalità, nella quale ogni passato scompare.

Analoga divaricazione di prospettiva troviamo circa il ruolo dei presupposti e, più in generale, della soggettività. Mentre lo storico della filosofia cerca di ridurre al minimo il ruolo e il peso dei pregiudizi - affidandosi al metodo e a una attenta sorveglianza sulle determinanti personali - l’interprete ritiene che i presupposti siano parte essenziale e non eliminabile di una autentica ricostruzione. Anzi: da parte speculativa si sottolinea come anche nella prospettiva storiografica sarebbero sempre all’opera le precomprensioni dello studioso, con l’aggravante che esse agirebbero del tutto occultamente, perché nascoste dalla pretesa di oggettività. Per tale ragione, quindi, non ci si dovrebbe preoccupare troppo di valutare l’apporto personale nel lavoro di ricostruzione storica: esso è inevitabile per chiunque si accinga a una impresa del genere. Di qui l’idea che tra storiografia e speculazione non vi sia nessuna reale distinzione perché la seconda è sempre all’opera anche nelle ricerche apparentemente più rigorose.

Assunto tutto questo, io penso che il problema non sia quello di stabilire dei confini definitivi, ma di distinguere e giudicare in base a tendenze chiaramente riconoscibili. Entro una serie continua e diversificata dei modi di comprensione della storia della filosofia noi possiamo individuare due estremi: da un lato l’edizione critica, che mira a presentare il testo nella sua “originalità” e col minimo apporto interpretativo, dall’altro il lavoro ermeneuticospeculativo più radicale, che guarda al testo come occasione per scrivere un altro testo - quello rappresentato dallo sforzo di pensiero dell’interprete. Tra questi due “limiti” troviamo una serie di forme intermedie, ciascuna delle quali può essere giudicata come tendente all’uno o all’altro opposto. Ritengo sia proprio questa direzionalità e non un confine netto a determinare la differenza tra una comprensione speculativa e una ricostruzione storiografica.

Tale considerazione vale anche in relazione alla questione del “fare storia della filosofia” che all’inizio abbiamo descritto avvalendoci del mestiere dell’artigiano proposta da Piaia. A ben guardare, una certa propensione alla fabbricazione secondo un metodo non è rinvenibile solo nella pratica storiografica, ma essa è presente anche negli approcci più speculativi.

Nei filosofi che hanno tentato ricostruzioni complessive della tradizione (o del pensiero di singoli autori) di forte impianto teoretico è evidentemente all’opera un certo “rigore” nella reiterazione costante di alcuni “passi”, quasi si trattasse di momenti definiti di uno schema metodologico.  Molto spesso ciò appare con più evidenza negli autori che intendono distaccarsi dalla tradizione: la nuova interpretazione è proposta tenendo conto in maniera molto rigorosa delle precedenti; la conoscenza della storia degli effetti sembra quindi essere un momento essenziale anche per l’approccio speculativo. Come abbiamo detto, ciò vale soprattutto quando si intende innovare e discostarsi in modo netto (e talvolta polemico) da quanto si è già compreso. A questo si deve aggiungere che, molto spesso, il rapporto che il ricercatore “speculativo” istituisce col testo da interpretare  assume una connotazione che potremmo definire “feticistica”, non fosse altro che per il rigore parossistico col quale egli lo considera, isolandolo dal contesto e da ogni altro aspetto che non sia immediatamente riconducibile a esso. Non va mai dimenticato, infine, che ogni interpretazione è prodotto dell’applicazione sistematica e ripetuta di uno schema concettuale (la dialettica, ad esempio) o di un’idea fissa (il tema dell’essere). È specialmente a questo  livello che gli approcci speculativi rivelano la loro vocazione metodologica: lo schema di analisi prescelto viene applicato senza alcuna discriminazione a ogni testo, a ogni autore e a ogni sistema di pensiero in un movimento che mostra quasi la regolarità di un meccanismo; che si parli dei Presocratici o di Kant, di Aristotele o di Cartesio, il lavoro di ricostruzione viene condotto seconda una regola  invariabile senza alcun riguardo per la specificità della materia trattata.

Di qui discende un effetto caratteristico rinvenibile in tutte le tradizioni storiografiche ispirate a un particolare approccio speculativo: l’applicazione del “metodo” negli epigoni di un forte interprete della tradizione non raggiungono quasi mai i risultati del maestro, nelle loro ricostruzioni lo schema di origine diviene uno strumento banale, una sorta giochetto senza mordente condotto sul filo di un’abitudine consolidata, che però ha smarrito la sua vitalità originaria. I piccoli Heidegger non sono Heidegger e loro etimologie risultano piuttosto fiacche e prive vera forza teorica. Questo si deve soprattutto al fatto che la storia speculativa dipende in misura essenziale dalla personalità di un filosofo e dalla sua visione. Essa assume, quindi, la connotazione precisa di un metodo che può essere ripetuto, ma che risulta debole e incapace di produrre informazione, quando esso si trovi applicato al di fuori dell’orizzonte di pensiero in cui è nato.

Mi permetto quindi di sottolineare come non abbia alcun senso la contrapposizione operata in ambito ermeneutico tra il metodo e la verità, come se l’adozione del primo non consentisse l’accesso alla seconda e, viceversa, l’emergere di questa fosse possibile solo rinunciando al metodo. Ciascuno, lo storico e l’interprete, scoprono la verità che riescono a coprire, ma sempre  a partire da un qualche interesse e secondo un “certo mestiere”. Quest’ultimo prevede invariabilmente dei passaggi i quali, per quanto divergenti possano sembrare nella loro impostazione, complessivamente presi configurano l’insieme metodico di un protocollo ripetibile.

Tale inevitabile commistione di “soggettività” e “oggettività”, di “speculazione” e “metodo” mi sembra confermi ancora una volta l’idea di Gregorio Piaia, quando sostiene che la pratica storiografica deve essere collocata in uno “spazio intermedio” tra pura erudizione e le strategie di ricostruzione totalizzanti di ascendenza teoretica. Solo in questo modo, ritiene Piaia, l’oggetto storico può essere indagato secondo uno sforzo continuo che compendi in sé prudenza filologica e capacità di comprensione, senza tuttavia scadere negli opposti errori dello sterile tecnicismo della riduzione della alterità dell’oggetto alla pura e semplice identità del nostro presente. Gli artigiani non trattano la materia allo stesso modo e non usano i medesimi strumenti. Questo non significa che il lavoro degli uni non possa essere riconosciuto dagli altri come un “buon lavoro”, anche se fatto con criteri diversi. Approccio speculativo e storiografia filosofica possono coesistere perfettamente – come hanno sempre fatto – provenendo da quell’universo della modernità, del quale, ancor oggi, non si intravede la fine.

ABSTRACT: This article focuses on the question of the relationship between historiography and the speculative philosophical approach. The text examined is Gregorio Piaia’s Il lavoro storico-filosofico. Questioni di metodo ed esiti didattici. We analyze the characteristics of different types of reconstruction of philosophy’s past, giving special importance to the concepts of “method” and “interpretezione.” In conclusion, it is argued that philosophical historiography and the speculative approach express opposing tendencies within the limits of the possibilities between extremes.

KEYWORDS: Philosophical historiography. Speculative approach. Methods. Interpretation.

BIBLIOGRAFIA

PIAIA, G. Il lavoro storico filosofico: questioni di metodo ed esiti didattici. Padova: Cleup, 2001.



[1] (Vicenza, 1964). Ha conseguito la laurea (1990) e il dottorato di ricerca in filosofia (1997) all’Università degli Studi di Padova. Ha proseguito la propria formazione con soggiorni di studio a Tübingen (KarlEberhard Universität) e Frankfurt a. M. (Schopenhauer-Archiv). Dal 2000 al 2003 è stato assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Padova e dal 7.01.2004 è ricercatore di Storia della Filosofia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Padova. Nell’A. A. 2003-2004 ha tenuto i corsi di Etica ed Etica Professionale nella Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Padova. Dal 2005 è Tutore della Classe di Scienze Morali presso la Scuola Galileiana di Studi Superiori (Università di Padova). Fabio Grigenti è membro del Consiglio Scientifico del Centro interdipartmentale per l’Etica e la Certificazione d’impresa (settore Nanotecnologie) – di Rovigo. Coordinamento di progetti di ricerca internazionali: - 2004-2007 – NEPTUN – (Implementation of the European Water Framework Directive – 2001). Finanziato nell’ambito del programma Leonardo Da Vinci (UE) - 2010-2012 – EPOCH - (Ethics in public policy-making: the case of human enhancement), finanziato dalla UE. Principali pubblicazioni: - Natura e Rappresentazione. Genesi e struttura della natura in A. Schopenhauer. Napoli: La città del Sole, 2000; Arnold Gehlen: l’uomo come essere che agisce, in B. GIACOMINI (a cura di), Pensare l’azione. Padova: Il Poligrafo, 2000, pp. 92 – 123; Günther Anders: l’obsolescenza dell’uomo, in G.F. Frigo (a cura di), Bios e Anthropos. Filosofia, biologia e antropologia, Guerini Studio 2007, pp. 287-297; Insegnare l’etica. La maestria del maestro. Lecce: Pensa Multimedia, 2007;

F. GRIGENTI, F.SCHIAVON, Radiological reporting in medical clinical, Springer, New York 2008; F. GRIGENTI, Psiche e Storia. Saggio su Høffding. Padova: Cleup,2011;  F. GRIGENTI, Filosofia e tecnologia. La macchina. Padova: Cleup, 2012. fabio.grigenti@unipd.it