Dalla Nova Methodo alla Prima Methodo: tendere e impulso nel tardo Fichte[1]
Federico Ferraguto[2]
Astratto: L’articolo mette in luce le ragioni della sostituzione del concetto di tendere della ragione con quello di volontà negli ultimi scritti di J. G. Fichte, prendendo in considerazione, in particolare, le lezioni sui Fatti della coscienza del 1813. L’obiettivo è quello di ridimensionare l’interpretazione di R. Lauth, secondo la quale il filosofare fichtiano avrebbe ripensato il primato attribuito dalla modernità al sapere teorico riuscendo a costruire una filosofia ‘nova methodo’, senza tuttavia superare una concezione ‘orizzontale’ della ragione in vista della formazione di una filosofia ‘prima methodo’. Quest’ultima partirebbe, non dalla correlazione tendere-affezione, ma dalla autochiarificazione della ragione in funzione del compito che essa pone a se stessa. Dopo una panoramica della dottrina del tendere nell’ambito di un’esposizione filosofica nova methodo, (§2) l’articolo definisce il modo in cui Fichte lo ripensa nei termini di una volontà capace di ordinare in modo coerente costellazioni di eventi e come tale ordine stia alla base di una comprensione del mondo come orizzonte di un coerente agire umano (§3).
Parole-Chiave: Fichte, J. G. Tendere. Filosofia trascendentale. Volontá. Wissenschaftslehre.
Do novo método ao primeiro método: tensão e impulso no Fichte tardio
Resumo: O artigo investiga as razões para a substituição do conceito de tender da razão pelo de vontade, nos últimos escritos de J. G. Fichte, e, em particular, em suas lições sobre os Fatos da Consciência, de 1813. Esta investigação torna possível redimensionar a interpretação de R. Lauth, segundo a qual o filosofar de Fichte teria repensado a primazia atribuída pela modernidade ao conhecimento teórico e teria conseguido construir uma filosofia “nova methodo”, mas não teria conseguido superar uma concepção “horizontal” da razão, em vista da formação de uma filosofia “prima methodo”. Esta última partiria, não da correlação tendência-afeição, mas da autoclarificação da razão, de acordo com a tarefa que ela estabelece para si mesma. Após uma panorâmica sobre a doutrina do tender, no contexto de uma exposição filosófica “nova methodo” (§2), define-se a forma em que Fichte a repensa, em termos de uma vontade capaz de ordenar constelações de eventos de maneira coerente (§3) e como essa ordenação fundamenta uma compreensão do mundo como horizonte de ação humana coerente.
Palavras-chave: Fichte, J.G. Tender. Filosofia trascendental. Vontade. Wissenschaftslehre.
1 La sfida del ‘pratico’
Tra le principali sfide della filosofia moderna, e delle sue ramificazioni nella discussione contemporanea, vi è certamente la riflessione sulla costituzione pratica o dinamica della realtà.[3] In parallelo al processo di costruzione dei principi del conoscere e dell’agire in funzione del dualismo tra soggetto e oggetto, si afferma l’indagine sui limiti di questo dualismo e sui suoi presupposti.[4] Ne ritroviamo tracce nel cuore della filosofia moderna, in autori come Pascal, Hume o Leibniz (Bourdieu, 1998, p. 126). E anche nella ricezione contemporanea, il dualismo soggetto-oggetto viene riconfigurato come espressione di una sublimazione della struttura originariamente dinamica e organica dell’esperienza e del conatus essendi che la caratterizza (Dewey, 2009, p. 38). La costituzione dell’oggetto presuppone una dimensione in cui la soggettività è “passiva”, determinata da dinamiche, tendenze e abitudini che non si impongono esplicitamente alla coscienza, ma che la oltrepassano, definendone, per così dire, i bordi (Husserl, 1960, p. 59). In questo contesto pare ovvia la critica a un certo idealismo, interpretato hegelianamente come una polarizzazione soggettiva della costituzione del mondo in funzione di una soggettività pura (Hegel, 1968, II, p. 36), e la valorizzazione delle “intenzioni” nascoste e implicite in questa costituzione.[5] Tale valorizzazione va oltre la mera descrizione antropologica. La tendenza in questione non è comprensibile solo come la reazione inconsapevole del soggetto a una certa affezione, ma qualifica il modo in cui il nostro comprendere e interagire con il mondo si struttura spontaneamente, cioè prima e a prescindere dal contatto cosciente con esso, e concretamente, ossia in una dimensione qualificabile storicamente, socialmente e geograficamente.[6] Alle soglie della filosofia contemporanea questo fenomeno si traduce in una massiccia riflessione sul ruolo del tendere della coscienza nella formazione del conoscere e dell’agire, che risulta da un lavoro di condensazione che la lingua tedesca opera in epoca illuminista riferita tanto a termini presenti in un contesto prevalentemente antropologico (per es. nisus, appetitus, impetus, conatus, instinctus) o a espressioni frequenti nel dibattito filosofico-naturale del secolo XIX (per es. Bewegung, Neigung, Anstoss, Streben). Al di là di una possibile storia concettuale della questione,[7] non è difficile constatare che esso si disloca in quattro contesti problematici differenti e complementari: psicologico, antropologico, etico-morale e filosofico-naturale.[8] I risultati della riflessione sul tendere della ragione o della coscienza, perciò, non investono soltanto la descrizione della soggettività concreta, ma anche, e più in generale, la ragione, intesa come operatività generale di cui il soggetto è interprete o mezzo, ma non origine. Emergono in questo senso le posizioni di Hegel e di Fichte, che arrivano a parlare di istinto di ragione, ma anche quella dello stesso Husserl, che nelle sue ultime riflessioni abbozza le linee per pensare a una teleologia generale della ragione.[9]
In un certo senso proprio Fichte appare come il compimento e il precursore di questa dinamica. Compimento, perché la sua Wissenschaftslehre (d’ ora in poi WL) si pone esplicitamente l’obiettivo di integrare ogni determinazione ontologica in una previa analisi epistemologica.[10] Ogni tendere, della ragione o del soggetto, può e deve essere declinato in termini epistemologicamente plausibili, esprimendo le forme in cui la razionalità intrinseca al rapporto io-mondo si rende evidente. Precursore, perché intuisce che il tendere non è una prerogativa psicologica o antropologica della soggettività, ma definisce la struttura intrinseca della ragione nel suo potere di costituzione di un’esperienza sensata.[11]
In un saggio del 2007, che riproduce una conferenza pronunciata allo Internationale Fichte-Kongress di Monaco di Baviera nel 2003, Reinhard Lauth mostra come la “direzione essenziale” della ricerca su Fichte, e più in generale, di una filosofia trascendentale conseguente debba essere per l’appunto quella che porta a una assimilazione del tendere a un compito che la ragione, nella sua struttura dinamica, pone a se stessa.[12] In senso stretto, la ragione non tende. Non esiste tendere nella ragione. Quest’ultima sarebbe costituita da un proiettarsi oltre se stessa che è, al contempo, giustificato e coerente, non riducibile a una forza che agisce a tergo, ma interpretabile come idea che essa stessa forma e di cui rappresenta il motivo, o il “fattore morale”, originario.[13] Il che significa: la filosofia trascendentale non si limita a chiarificare eventi dati, ma è un movimento che tende ordinarli in costellazioni coerenti.[14] Secondo Lauth, Fichte avrebbe però soltanto intuito e abbozzato questo passaggio, senza averlo effettivamente praticato.[15] Nelle ultime esposizioni della WL e in particolare nel diario tenuto negli ultimi mesi di vita, tra il 1813 e il 1814, Fichte avrebbe certamente intuito come i fattori teorici del sapere (in particolare l’appercezione) potessero essere interpretati come espressione di un volere che chiarifica se stesso.[16] Ma il suo procedimento resterebbe caratterizzato da un inevitabile riferimento a una sollecitazione o a una affezione esterna. Fichte avrebbe perciò ripensato il primato attribuito dalla modernità al sapere teorico e sarebbe riuscito a costruire una filosofia “nova methodo”. In questo modo, però, egli non sarebbe riuscito a superare una concezione ‘orizzontale’ della ragione in vista della formazione di una filosofia “prima methodo”. Quest’ultima partirebbe, non dalla correlazione tendere-affezione, ma dalla autochiarificazione della ragione in funzione del compito che essa pone a se stessa. È possibile, tuttavia, ripercorrere l’iter fichtiano e mettere in discussione la tesi di Lauth mostrando come, almeno nelle espressioni del suo pensare più maturo, Fichte metta in opera la transizione da una retorica dell’impulso a una semantica della volontà sia effettivamente all’opera. In questo articolo mi concentrerò su un episodio specifico di questa transizione, che coinvolge la ripresa e la progressiva eliminazione della figura dell’impulso nelle lezioni sulle Tatsachen des Bewusstseins del 1813. Dopo una sintetica panoramica della dottrina dell’impulso nell’ambito di un’esposizione filosofica nova methodo, che ripercorre gli scritti jenesi di Fichte della media e tarda fase berlinese (§2) mi concentrerò a definire il modo in cui Fichte ripensa l’impulso nei termini di una volontà capace di ordinare in modo coerente costellazioni di eventi (§3) e come tale ordine stia alla base di una comprensione del mondo come orizzonte di un coerente agire umano (§4). Ciò pone le basi non solo per relativizzare la tesi interpretativa di Lauth, ma anche per riflettere teoricamente sul significato di una possibile teleologia della ragione (§5).
2 Tendere e impulso nella WL ‘nova methodo’
Con l’espressione WL nova methodo, viene comunemente identificato l’insieme di trascrizioni delle lezioni fichtiane sulla dottrina della scienza tenute a Jena tra il 1796 e il 1799. La caratteristica di queste lezioni, come lo stesso Fichte afferma, è quella di porre il pratico a fondamento del sapere teorico e di introdurre quest’ultimo solo per chiarirne i nessi.[17] Ciò significa porre alla base della formazione delle strutture del comprendere un’attività puntuale e incomprensibile nel suo accadere, ma che nelle potenzialità che dischiude permette di determinare gli schemi concettuali per comprendere il dato affettivo o percettivo.[18] Vista come impostazione tipica non solo di esposizioni specifiche della WL, ma dello stile complessivo di Fichte, la nova methodo articola le forme di autochiarificazione della ragione in funzione di tre momenti: a) esperienza fattuale dell’alterità nei termini di urto (Anstoss) o sollecitazione (Aufforderung);[19] b) elaborazione riflessiva dell’esperienza dell’alterità in funzione del tendere innescato dall’incontro con essa; c) riconduzione dell’elaborazione riflessiva al movimento immanente alla ragione stessa.[20] La dottrina della scienza nova methodo avrebbe, in questo senso, una struttura inevitabilmente orizzontale. Senza l’incontro fattuale con l’alterità, le elaborazioni riflessiva (secondo momento) e autoriflessiva (terzo momento) non avrebbero luogo. Il tendere della ragione ha qui una funzione fondamentale. Esso, infatti, rende possibile la proiezione virtuale dell’incontro con la resistenza e una sua elaborazione non limitata all’incontro puntuale e fattuale con essa.[21] Vediamo come questa struttura generale viene articolata in diversi momenti del pensiero di Fichte.
2.1 Il tendere nell’inversione delle categorie di relazione
Fin dai primi anni jenesi, e già nella Praktische Philosophie, che precede di poco la Grundlage der Gesamten wissenschaftslehre, Fichte si pone il problema della possibilità del trasferimento di una legge, inizialmente prodotta dall’intelletto, al non-io.[22] A questa domanda il filosofo risponde esplorando la costituzione della facoltà di giudizio e passa a indagare le condizioni di possibilità del cosiddetto Streben des Verstandes (sforzo, o tendere, dell’intelletto, GA, 1962/2013, II, 3, p. 240-241), che permette un’inversione della struttura delle categorie di relazione rispetto alla forma in cui vengono presentate da Kant nella prima critica.[23] La categoria di sostanzialità viene trasformata nei concetti di forza e movimento (GA, 1962/2013, II, 3, p. 242). Quella di azione reciproca viene trasformata in quella organizzazione (GA, 1962/2013, II, 3, p. 243). La causalità viene trasformata in finalità (GA, 1962/2013, II, 3, p. 253). Agli occhi di Fichte, questi concetti non rappresentano modalità di applicazione dell’intelletto a oggetti, ma una maniera di rendere il dato conforme a ragione.[24] Per Fichte, tale inversione è possibile nella misura in cui la ragione viene intesa come tendenza alla creazione di un ordine nel mondo empirico, indipendentemente dal fatto che qualcosa sia dato effettivamente (GA, 1962/2013, II, 3, p. 244). Questa legge permette di “produrre” il non-io, nella misura in cui impone al dato l’esigenza di adeguarvisi. Solo in questo modo, e non attraverso una creazione materiale di oggetti da parte dell’io, è possibile che la spontaneità della ragione possa essere pensata come principio della costituzione teorica del mondo (GA, 1962/2013, II, 3, p. 241-42). Il tendere (Streben) è qui caratteristica dell’attività pratica dell’io. La sua funzione è quella di ricomporre la contraddizione apparente tra l’attività assoluta dell’io puro e la dipendenza dell’attività intelligente dal non-io (GA, 1962/2013, II, 3, p. 187 e p. 183-184). Esso viene dunque inteso innanzitutto come tendere della recettività propria dell’io dipendente a svincolarsi dalla sua passività rispetto al dato sensibile, sentita soggettivamente come impulso. Tale sentimento, mediante cui lo Streben è specificato come causalità trattenuta e autogenerantesi (GA, 1962/2013, I, 2, p. 418), è ciò che spinge l’io dipendente a liberarsi dal vincolo rappresentato dal non-io. Il vincolo viene così subordinato all’io stesso, attraverso lo sprigionarsi del potere figurativo dell’immaginazione produttiva. Questa “elabora” il vincolo e lo costituisce come oggetto coerente rispetto all’attività dell’io.
L’incontro con l’alterità, alla base di impulso e sentimento, è tematizzato chiaramente da Fichte come “urto” (Anstoss) nella Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre (GA, 1962/2013, I, 2, 210-211). Nello scritto del 1794 l’obiettivo è innanzitutto quello di chiarire l’irriducibilità dell’incontro fra io e non-io nel conoscere teoretico ed esibire la funzione “tensionale” dell’attività pratica nella costituzione dell’oggetto. Fichte tematizza, però, anche la possibilità di concludere da un’azione reciproca dell’io con se stesso al carattere indipendente e autonomo dell’oggetto stesso (GA, 1962/2013, I, 2, p. 416). Il sentimento che nasce dall’urto è inteso come un sentimento di perenne impotenza o costrizione, come uno stato, un essere o una “natura” dell’io. Da questa costrizione l’io stesso deve liberarsi mediante il lavoro dell’immaginazione produttiva che lo pone come un elemento della costellazione attraverso la quale l’io realizza se stesso (GA, II, 3, p. 247).
2.2 Sintesi di libertà ed essere
La visione teleologica della soggettività concreta è alla base delle esposizioni di WL formulate tra il 1796 e il 1799. Se l’autodeterminazione dell’io deve essere un continuo porre scopi, allora essa non si presenta come attività pura, ma come attività vincolata alla scelta di una determinata serie nell’infinita quantità del molteplice (GA, 1962/2013, IV, 3, p. 370). Questa sua caratteristica non è contingente. Piuttosto individua la costituzione ontica, dell’essere razionale finito, concepita come un tendere continuo o un agire che non giunge mai a piena realizzazione, restando costretto in se stesso, come agire e negazione, o contenzione, dell’agire stesso (GA, 1962/2013, IV, 2, p. 60).[25] Mediante il “tendere” si inserisce nel dispiegamento della spontaneità dell’io un elemento finito che ne costituisce il limite estremo, ma che è condizione necessaria perché essa possa comprendersi come attività di “superamento” del limite stesso (GA, 1962/2013, IV, 2, p. 110).[26] In questo duplice movimento di resistenza e superamento del vincolo viene a liberarsi tutto il potere della riflessione. Solo se si visualizza la pura attività dell’io come tendere, infatti, è possibile che vengano tenuti insieme la “libertà” e l’“essere” dell’io concreto che caratterizzano l’attività teoretica e, con essa, la possibilità di porre obiettivi concreti per l’agire del soggetto (GA, 1962/2013, I, 2, 397, p. 394). L’impulso è l’elemento noetico di questa dinamica (GA, 1962/2013, IV, 3, p. 376).[27] Esso indica l’impossibilità di una realizzazione piena dell’agire posto di fronte al vincolo, ma anche il fatto che tale impossibilità sprigiona un’attività virtuale che permette di configurare il dato e intenderlo in funzione di un fine progettato dall’io (GA, 1962/2013, IV, 3, p. 376).[28] Solo in quanto l’io è capace di impulso è possibile che la spontaneità della ragione possa essere resa intuibile. Nello stesso tempo, solo attraverso il suo tendere, la ragione coglie se sessa come operatività concreta.[29]
2.3 Il Trieb des Seins
In risposta alle accuse di nichilismo, e come reazione all’imporsi della filosofia della natura schellinghiana, tra il 1804 e il 1807 Fichte intende l’impulso non come caratteristica della spontaneità del soggetto, ma come Trieb des Seins, e cioè come configurazione della vitalità intrinseca della ragione quale manifestazione dell’assoluto.[30] Con questa teoria, apparentemente distante dalle riflessioni jenesi, Fichte mira a evidenziare il correlato noematico del sentimento di certezza generato dalla auto-realizzazione del sapere. Conoscere qualcosa significa esserne certi. Il sentimento di certezza annulla il sapere di fronte a ciò che viene consaputo, e perciò di fronte all’essere che la stessa manifestazione pone e presuppone, senza però identificarlo con un oggetto dato. Nello stesso tempo, però, il sapere sviluppa la sua forza proiettiva. Non è produzione dell’essere, ma figurazione virtuale di un essere chiuso in se stesso e inaccessibile nella sua totalità (GA, 1962/2013, II, 8, p. 261, p. 265). Nella WL del 1807 Fichte spiega, in questa medesima direzione, che la relazione tra la vita immanente del sapere e l’essere è possibile solo dal punto di vista del sapere stesso. Non è possibile, tuttavia affermare la realtà dell’essere come risultato di un’argomentazione sulla sua essenza. L’essere si dà in funzione della tendenza del sapere a uscire da sé in funzione del conseguimento della sua certezza assoluta (GA, 1962/2013, II, 10, p. 165). Fichte sembra così ridimensionare la struttura orizzontale del suo filosofare e mostrare come la prestazione della coscienza intenzionale non sia determinata in funzione della risposta a uno stimolo esterno, ma come la sua strutturale tendenza a oltrepassare se stessa implichi la formazione di possibili (e virtuali) schemi per la comprensione del reale.[31] Solo in questo senso è possibile intendere il sapere come rivelazione e creazione del reale. Rivelazione, nel senso della manifestazione completa del sapere nella sua struttura autoriflessiva. Creazione, in quello della genesi della coscienza intenzionale come espressione di questa manifestazione completa (GA, 1962/2013, II, 10, p. 171). L’impulso teorizzato da Fichte in questi anni può così essere differenziato dall’impulso sensibile. Ne assume tuttavia la struttura formale. La sua causalità è attivata da un’affezione. Ma l’affezione non definisce, come Reinhold gli rimproverava già nel 1801, una “deficienza” da sublimare, bensì la vitalità strutturale del sapere e la sua strutturale dipendenza dall’altro da sé.[32] Il Trieb des Seins è perciò correlato del sapere inteso come “essere fuori dell’essere” (Sein ausser dem Sein, GA, 1962/2013, II, 10, p. 170), vitalità, virtualità ed espressività continua[33].
2.4. Impulso e capacità
Secondo quanto Fichte spiega nelle note Seit d. 1 April nach den Reden an die Deutsche Nation, “essre fuori dall’essere”, non significa disperdersi in una infinità di manifestazioni arbitrarie.[34] Al contrario: il tendere che caratterizza il sapere individua l’identità dell’apparizione in rapporto al mutare delle sue specificazioni fenomeniche. Esso è “[...] impulso all’identità all’interno e nell’estraneazione, che coabita l’estraneazione” (GA, 1962/2013, II, 10, p. 194). Pur rendendo possibile lo specificarsi della manifestazione dell’assoluto in una molteplicità infinita di proiezioni o di determinazioni fenomeniche (il sapere concreto), il tendere esibisce, proprio in quanto movimento orientato al superamento delle specificazioni che esso stesso rende possibili, la sfera a cui esso tende come qualcosa di oggettivo e necessario (GA, 1962/2013, II, 10, p. 201). Attraverso la struttura del tendere viene così delimitata la struttura essenziale della manifestazione quale luogo del raccogliersi fattuale della vita in unità e della simultanea apertura di un orizzonte infinito in cui la vita stessa può esplicarsi (GA, 1962/2013, II, 10, p. 222, p. 220).[35] L’apparizione, infatti, nel proiettare qualcosa proietta sempre se stessa. Per questo motivo, abbandonandosi o sacrificandosi al continuo superamento di ciò che essa stessa proietta, ritorna in sé, si avvede o, più precisamente, presta attenzione a se stessa come riflessibilità della vitalità che la caratterizza (GA, 1962/2013, II, 10, p. 225-226). L’attenzione, che negli anni di Jena rappresentava un gesto fattuale necessario alla presa di coscienza dell’io che concretamente pratica il filosofare (GA, IV, 3, p. 348), viene chiarita nel 1808 come una determinazione immanente al sapere – e non solo come opzione di una soggettività particolare – e posta al culmine della dinamica autoriflessiva dell’apparire dell’essere. Sulla base di questi presupposti, tra il 1810 e il 1814 Fichte approfondisce l’idea secondo la quale il tendere non è prodotto dall’incontro con una resistenza, ma è il risultato di uno scarto interno alla struttura della ragione.[36] Nei corsi tenuti presso la neofondata Università di Berlino, la manifestazione viene intesa per l’appunto come capacità di figurare l’essere e perciò come possibilità di vincolarsi o concentrarsi in un punto specifico della sua figurazione. La capacità, in quanto tale, è sempre un tendere o un impulso alla figurazione (Fichte, 1810, p. 22), che per essere pensato deve presupporre una disponibilità a concretizzarsi in una causalità reale e in un mondo di corpi (Fichte, 1810, p. 24-25). Il tendere esibisce così una tensione tra idea e fatto, tra una legge di coerenza immanente a ogni prestazione razionale e realizzazioni parziali di questa legge, che individua la struttura fondamentale dell’io come sintesi tra la coscienza delle infinite possibilità di attuazione della capacità formativa del sapere e l’intuizione dei limiti in cui questa attuazione può accadere concretamente (Fichte, 1810, p. 29). È dalla visione unitaria delle infinite possibilità della capacità e dalla simultanea visione di essa in realizzazioni parziali che è possibile concludere a una “scissione” della vita della ragione in “[…] più vite, che restano essenzialmente uguali tra loro, visto che quella unica vita deve essere ripetuta in varie forme ed essere posta più volte” (GA, 1962/2013, II, 12, p. 66-67), arrivando così a una molteplicità di io che agiscono in un mondo comune (Fichte, 1810, p. 30-31). Questa struttura è ripresa nei corsi dei Fatti della coscienza tenuti tra il 1810 e il 1811, dove l’impulso è, nuovamente, espressione dell’incontro della ragione con un ostacolo, il quale viene rielaborato riflessivamente, ricondotto allo sviluppo immanente della capacità e pensato in termini di forza (GA, 1962/2013, II, 11, 67-68). A partire dal 1811, però, le figure del tendere e dell’impulso vengono progressivamente depotenziate e ricondotte a espressioni di strutture concettuali più complesse. Nell’esposizione di WL del 1811 l’impulso viene interpretato come “applicazione” della legge generale secondo la quale la ragione vede se stessa nella costruzione di un sapere particolare da parte dell’io (GA, II, 12, 290). E nelle lezioni di Logica trascendentale esso esibisce la forma del sapere nella sua dimensione individuale. Esperibile attraverso il sentimento, l’impulso è espressione di una forza cieca, ma nello stesso tempo appare come un elemento necessario per il cogliersi autoriflessivo della ragione (Fichte, 2000, p. 264). Sebbene in una posizione sistematicamente meno significativa, e sostanzialmente ridotto a espressione di uno stile filosofico non ancora pienamente consapevole di se stesso (Fichte, 2000, p. 215), anche nella fase tardo-berlinese il tendere assume una funzione imprescindibile. La realizzazione concreta della ragione in un sapere effettivo non sarebbe possibile senza un’opposizione tra la pura forma del sapere e il sapere specifico, che libera la proiettività della ragione e le permette di innalzarsi al di sopra della sua dimensione fattuale prendendo coscienza delle sue proprie strutture e dei suoi limiti.
3 Verso la WL Prima Methodo
3.1 La “deviazione”.
Al di là della constatazione di un possibile arretramento del ruolo sistematico del tendere e dell’impulso nello sviluppo della WL fichtiana, l’identificazione di queste nozioni con una filosofia non ancora pienamente consapevole delle sue proprie strutture svolge un’importante funzione di cerniera tra la dimensione del sapere ordinario e quella della filosofia pienamente dispiegata. Se l’io è lo strumento attraverso il quale la ragione si comprende come fenomeno dell’assoluto, la descrizione delle strutture di questo comprendere passa per quella delle strutture dell’io concreto. Fichte recupera così l’antropologia trascendentale che aveva caratterizzato gli anni jenesi. Ma se ne serve limitatamente, per spiegare il momento di transizione dal sapere ordinario al punto di vista trascendentale, in una descrizione del sapere come dato di un’osservazione empirica, secondo una progressione che esplora le diverse configurazioni del “pratico”, dal nesso tra impulso e sentimento a quello tra volontà e ordine. A questa descrizione sono dedicate le lezioni sui Fatti della coscienza (d’ora in poi TB)[37], che costituiscono il maggiore impegno di Fichte negli anni della sua attività alla neofondata Università di Berlino.[38]
Le differenze che sussistono tra le diverse esposizioni di TB sono solo in parte riconducibili alla “volatilità” dello stile filosofico fichtiano.[39] Le versioni di TB disponibili, sono in realtà attraversate da un’evoluzione genetica che rende il corso del 1813 più profondo di quello del 1810-11 e che declina tale profondità nei termini di una concezione della ragione come volontà e non più come espressione di un tendere. Questo passaggio si deve, almeno in parte, alla funzione “mediatrice” dei corsi di Logica trascendentale, che Fichte intende come una “deviazione” dal suo rigoroso progetto sistematico (NW, 1834, I, p. 406). Si può sintetizzare il cammino di Fichte indicando tre approcci diversi, che si susseguono, tra il 1810 e il 1813:
1. In TB\1810-11 il sapere è visto nella forma in cui si offre alla coscienza ordinaria e chiarito in un movimento che porta dalla affezione alla legge generale del sapere come mettersi in forma (o esistere) dell’assoluto.
2. Nelle lezioni di Logica trascendentale la visione del sapere come forma di esistenza dell’assoluto è impiegata e applicata per decostruire e correggere il sapere ordinario, costruito sulla base dei presupposti della logica formale e sul dualismo tra soggetto e oggetto.
3. In TB\1813 Fichte sintetizza i primi due approcci. Assume la correlazione originaria fra essere dell’assoluto ed esistenza e la applica per descrivere i singoli momenti del sapere dato.[40]
In TB\1813 il sapere viene compreso come risultato di una proiezione dell’essere in un discorso sensato, in un comprendere.[41] Quest’ultima implica una chiarezza rispetto ai principi in cui questa giustificazione viene condotta (il comprendere è comprendere se stesso).[42] E tale giustificazione, infine, deve sempre essere situata (il comprendere deve avere qualcosa da comprendere).[43] Il fenomeno in cui l’assoluto si manifesta non è un’unità astratta, ma una sintesi di identità e differenza. Identità della ragione con se stessa e differenza tra questa identità e i suoi singoli momenti.[44] Il comprendere, è, perciò, pensabile come una linea divisibile in infiniti punti, o come una vita caratterizzata da infiniti momenti specifici. L’osservazione ha il compito di descriverli e spiegarli nella loro struttura fondamentale (NW, 1834, I, p. 412) e chiarire il sapere fattuale come espressione della struttura immanente del mettersi in forma dell’essere, senza assumere necessariamente il sapere fattuale come elemento imprescindibile tramite il quale cui realizzare la sua spiegazione.
3.2 Essere e divenire
L’approccio praticato in TB\1813 è reso possibile da una tematizzazione diretta del mettersi in forma della ragione e non da un’induzione delle strutture di quest’ultima da una sua particolare concrezione (o da una struttura specifica del sapere dato). Intesa come “essere fuori dell’essere”, l’apparizione è essenzialmente formatività e auto-formatività. Nel porsi come manifestazione dell’essere, essa è, nello stesso tempo, formazione di sé. In altre parole, per Fichte, ogni prestazione razionale è caratterizzata dalla formazione di uno specifico profilo attraverso il quale un dato viene compreso (la Erscheinung è proiezione, formazione), essenzialmente autoriflessiva, cioè consapevole di se stessa in quanto creazione del profilo specifico attraverso il quale il dato viene compreso (NW, 1834, I, p. 419-420). Fissata in uno sguardo, questa dinamica identifica il risultato puntuale di una prestazione razionale e ne mette a fuoco la forma. Ma la dinamica della manifestazione non si esaurisce qui. Essa ha infatti un significato duplice. Da una parte si differenzia dall’essere. Dall’altra ne è una manifestazione positiva.[45] Nel differenziarsi dall’essere, la manifestazione esibisce una struttura relativa che coincide con il sapere empirico. L’esperienza è infatti sempre riferita al soggetto che la compie. Ciò che vi inerisce riflette uno specifico profilo ermeneutico. Questo non esaurisce tutte le possibilità epistemiche e pratiche attraverso le quali il soggetto si relaziona al mondo, che trascendono i momenti puntuali dell’esperienza e ne esprimono le potenzialità. Il fenomeno è perciò anche manifestazione “positiva” dell’essere (NW, 1834, I, p. 420, p. 427). Esso è comprensibile come l’unità dinamica e organica delle sue formazioni. O, come anche Fichte si esprime, è la riflessibiità dell’essere stesso. La dinamica della manifestazione apre, così, uno spazio sovraempirico (Überefarhung) o sovraeffettuale (Überwirklich), nel quale l’essere effettuale si configura come un “divenuto” in rapporto al divenire (NW, 1834, I, p. 423). Di fronte all’essere effettuale la ragione perde se stessa e vi si sacrifica assolutizzandolo. Tuttavia, pur essendo negazione della vitalità originaria della ragione, l’essere effettuale non viene assimilato, come accadeva a Jena, a un ostacolo “imprevedibile”,[46] in cui la ragione si imbatte e che la frena. Si presenta, piuttosto, come il correlato di un “ripercuotersi” della ragione in se stessa.[47] L’uso della metafora musicale della “ripercussione” in questo contesto è molto indicativa. Allo stesso modo in cui in musicologia la Reperkussion indica l’esecuzione di uno stesso tema nelle diverse tonalità di una fuga, o il ripetersi continuo di un medesimo suono,[48] nella WL la ragione si ripete ripiegandosi su se stessa e si sviluppa, affermandosi nelle sue diverse configurazioni, senza stabilire fra queste un nesso causale, bensì presentandole come riflessi o come strati di una medesima dinamica originaria.
3.3 Impulso, tendere e volere
L’osservazione dei fatti della coscienza non è altro che una descrizione delle diverse articolazioni di questa ripercussione. L’approccio del 1813 permette a Fichte di tematizzare direttamente le prestazioni pratiche della ragione e spiegare quelle teoretiche come un loro correlato. I due lati, formale e dinamico, che emergono dalla comprensione di una prestazione razionale specifica, permettono di mettere a fuoco le modalità attraverso le quali, nel suo mettersi in opera, la ragione può sempre spingersi oltre una sua configurazione puntuale e intenderla come una realizzazione specifica delle sue potenzialità. Nella immagine x di una specifica prestazione razionale è sempre implicita l’immagine y di una dinamica che la trascende, che non viene intuita nella prestazione specifica, ma che è necessariamente pensata come sue correlato (NW, 1834, I, p. 441). L’immagine y sarà allora immagine di un certo processo o, potremmo dire, di un certo modus operandi, implicito nella costruzione di una determinata correlazione tra intuizione e pensiero, o tra soggetto e mondo. Fichte scrive che con y è immediatamente data anche una legge del vedere, cioè l’insieme di possibilità sensate sullo sfondo delle quali si staglia la singola prestazione razionale. Tale legge è sovrasensibile ed è specificamente legge del vedere (NW, 1834, I, p. 442). Il genitivo va inteso tanto in senso soggettivo che oggettivo. La legge è del vedere, nel senso che è accessibile al vedere come l´organo attraverso il quale si mette in opera concretamente. Ma essa è anche del vedere, perché ne definisce la struttura specifica come sintesi tra il volgersi a un oggetto (vedere qualcosa), vedere se stesso e vedere-oltre ciò che viene puntualmente visto. In questa duplicità troviamo tanto l’immagine di ciò che è divenuto e che è, anche se solo in senso formale, quanto l’immagine di ciò che è a-venire, e a cui il vedere tende. Nella misura in cui è conforme a una legge, tale tendere non viene inteso come un movimento cieco, ma come una intenzionalità coerente.[49] Fichte ne conclude, con una espressione gravida di futuro, che la totalità dell’esperienza è espressione dell’attuarsi della ragione als Wille und Vorstellungvermögen (“come volontà e facoltà rappresentativa, NW, 1834, I, p. 462). La rappresentabilità del mondo presuppone, cioè, una forza che si sviluppa secondo una linea definita e che può essere identificata come un volere che, proprio per questo, non è più assimilabile a un impulso:
È chiaro che questo volere è ciò che prima chiamavamo impulso. Ma questa espressione era manchevole, perché lasciava ancora valere l’idea, certamente da rigettare, che nel passaggio dall’impulso generale alla volizione particolare ci sia ancora qualcosa come la libertà. Se si vede che le singole volizioni… non sono che fenomeni del volere fondamentale-uno (come la sussunzione sotto un concetto), appare chiaro che non si debba assolutamente pensare alla libertá (NW, 1834, I, p. 466).
Non si tratta, tuttavia, di una semplice sostituzione terminologica. La nuova prospettiva assunta da Fichte gli permette di riconfigurare il nesso tra affezione, tendere e virtualità della ragione nei termini di sviluppo coerente di una intenzione implicita nella ragione stessa.
3.4 Ordine
Sostanzialmente, nel prendere atto di una possibilità più ampia della mera immagine puntuale, attraverso l’immagine y, la ragione comprende se stessa anche come principio di ulteriori possibili figurazioni contenute in y, nella misura in cui è il luogo in cui viene oltrepassata la mera materialità del dato. Il materiale può perciò essere compreso come principiato del volere, nel senso che tanto la determinazione quanto la determinabilità della volontà sono implicazioni della forma del fenomeno, o del mettersi in forma della ragione. Il volere, ovviamente, è principio non nel senso di una creazione materiale. L’analisi di Fichte si dispiega al livello della forma della manifestazione, cioè delle possibili configurazioni della ragione e non di un’analisi di una materialità della natura o del processo “reale” di costituzione del fenomeno a partire dall’assoluto. In un caso, infatti, la WL si trasformerebbe in una filosofia dell’identità, già ampiamente criticata e superata. Oppure si ridurrebbe a quella “fenomenologia” che Reinhold aveva presentato nei Beitraege del 1801, secondo la quale la materialità della natura è una concretizzazione parziale di una logica extrasoggettiva basata su un’identificazione tra pensiero ed essere, resa possibile da una connessione originaria secondo la quale non esiste essere materiale che non corrisponda a una logica (o a una necessità interna) esibita dalle forme del nostro pensare (Reinhold, 2020, p. 763-764). È vero: in Fichte, così come in Reinhold, le attuazioni concrete della ragione sono “principio euristico” per una scoperta del principio originario della esperienza (NW, 1834, I, p. 482; Reinhold, 2020, p. 764). Ma mentre per Reinhold tale principio si riferisce a un errore inevitabile che la pratica rigorosa del filosofare ha il compito di correggere, in Fichte la dimensione euristica ha la funzione di rimando, immanente alla ragione stessa, della prestazione razionale puntuale, oltre se stessa (NW, 1834, I, p. 482). Tale rinvio si riflette nelle forme in cui il “pensabile”, il sovraeffettuale, si applica all’empirico (NW, I, 1834, p. 477) e si articola come ordine nella natura (NW, 1834, I, p. 477), concetto di fine (NW, 1834, I, p. 485) e, più in generale, come dovere del volere secondo una legge, ciò che per Fichte è l’imperativo categorico (NW, 1834, I, p. 478). Non è possibile discutere queste determinazioni nel poco spazio che ci resta a disposizione. Quello che vale la pena notare è che la prospettiva di TB\1813 non appare molto lontana da quella dei primi anni di Jena, in cui a partire dalla spontaneità dell’io le determinazioni della conoscenza erano ripensate nei termini buletici correlati alla affermazione di un primato del pratico. Tuttavia, in TB\1813 Fichte non muove dalla dipendenza dell’io dal non-io e dalla esigenza di superarla. Anzi, in termini provocatori, in TB\1813 il filosofo arriva a sostenere che autentico non-io è proprio la dinamica complessiva della ragione, nella misura in cui sfugge alla duplicità tra io e altro da sé che caratterizza la esperienza fattuale. In particolare, se negli anni di Jena, e sostanzialmente fino al 1812, Fichte attribuisce, come sostenuto da Cesa (2002) una funzione categoriale alla dimensione istintiva e pre-cosciente della soggettività concreta, in seguito alla Logica trascendentale e in TB\1813 egli spiega come questa attribuzione possa essere ulteriormente ricondotta a un movimento prima methodo, in cui l’opposizione della ragione e l’altro da sé viene pensata come ripercussione della ragione su se stessa. È tutto da discutere se questa mossa riporti Fichte nell’alveo di una metafisica essenzialista e sostanzialmente neoplatonica.[50] È rilevante, tuttavia, il fatto che, con l’assimilazione del tendere alla sua struttura immanente della ragione, venga compiuto un passo fondamentale per una interpretazione non psicologistica, bensì trascendentale, del tendere stesso.
FROM THE NOVA METHODO TO THE PRIMA METHODO. STRIVE AND DRIVE IN THE LATER FICHTE
Abstract: The paper points out the reasons for the substitution of the concept of reason's striving for the concept of will in J.G. Fichte's later writings, and particularly in his lectures on the Facts of Consciousness of 1813. In this way, it is possible to rethink R. Lauth’s interpretation, according to which Fichtian philosophizing would reconsider the primacy attributed by modernity to theoretical knowledge and would succeed in constructing a “nova method” philosophy, but would fail to overcome a 'horizontal' conception of reason with a view to the formation of a “prima methodo” philosophy. The latter would start, not from the striving-affection correlation, but from the self-clarification of reason according to the task it sets for itself. After an overview of the doctrine of striving in the context of a philosophical exposition nova methodo, (§2) we define how Fichte rethinks it in terms of a will capable of coherently ordering constellations of events and how such ordering underlies an understanding of the world as the horizon of coherent human action (§3).
Key-Words: Fichte, J.G. Striving. Transcendental Philosophy. Will. Wissenschaftslehre.
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Ricevuto: 29/03/2023 - Accettato: 29/06/2023 - Publicatto:13/11/2023
[1] Esta pesquisa é financiada por uma bolsa concedida pelo CNPq (Bolsa de Produtividade em Pesquisa - 308011/2021-0).
[2] Professor do Programa de Pós-Graduação em Filosofia da Pontifícia Universidade Católica do Paraná (PUC/PR), Curitiba, PR – Brasil. Pesquisador CNPq. ORCID: https://orcid.org/0000-0002-3874-8300. E-mail: federico.ferraguto@pucpr.br
[3] Le conseguenze etiche e politiche di questo approccio sono state sintetizzate da Pozzo (2021, in part. p. 6 e seg.).
[4] Già Deleuze (1953) chiarisce come questo superamento non sia alternativo alla sensibilità moderna, ma ne rappresenti il centro dinamico.
[5] Una visione generale di questo tema nel contesto della filosofia classica tedesca è stata data da Zöller (2000).
[6] Si tratta di una estensione della idea di critica da una visione delle funzioni del soggetto a una riflessione sulle condizioni materiali di possibilità del pensiero, così come viene formulata da Bourdieu (1998, p. 9).
[7] Cfr. su questo punto le ricerche di Cesa (1993), Fabbri Bertoletti (1990), Buchenau (2002).
[8] Una descrizione chiara e dettagliata di questo aspetto è data da Fabbianelli (1998).
[9] Cfr. ad es. Hegel (1968, XII, p. 58); Fichte (GA, 1962/2013, I, 8, p. 199); Husserl (1950, XV, p. 594-595). Per un’analisi ampia della posizione di Hegel in merito si veda Bodei (2014, p. 137); su Fichte cfr. Carvalho (2020); per una analisi dettagliata della posizione Husserlina si veda Nam-In Lee (1992). Un modello análogo si trova anche in Reinhold (cfr. ad es. 1791, p. 10), su cui si veda Ameriks (2010) e Breazeale (2010).
[10] Cfr., tra i molti contributi su questo, Siemek, 1990 e Ivaldo, 2015a. Il contributo di Siemek ha il merito di inserire la WL di Fichte nel quadro di uno sviluppo ampio del pensiero trascendentale e di giustificare la linea storica e teorica che fa da sfondo a questo testo. Il saggio di Ivaldo ha, invece, il merito di fornire una sintesi chiara ed efficace del rapporto tra epistemologia e ontologia in Fichte e, in questo senso, di recuperare alla visione filosofico-trascendentale la dimensione extrasoggettiva della razionalità. Secondo Ivaldo, infatti, “la filosofia trascendentale – di cui la dottrina della scienza è espressione dopo la critica della ragione di Kant – non è una dottrina dell’essere, separato dalla coscienza, e nemmeno è una dottrina della conoscenza, separata dall’essere. È la comprensione unitaria e differenziata della coscienza, intesa non come sola coscienza rappresentativa, o teoretica, ma… come relazione all’essere, relazione ontologica. Si tratta di una relazione pre-categoriale e meta-soggettiva, che si articola in schemi o progetti di comprensione dell’essere, designati dal tardo Fichte: immagini. Una tale relazione in atto viene chiamata sapere”.
[11] Cfr. Lauth (2004, p. 17). Ciò permette una riflessione sulla funzione del tendere in una dimensione ampia, non vincolata a specifiche esposizioni della WL e non vincolata soltanto alle scienze filosofiche particolari (teoria de diritto e dottrina morale) che Fichte ne fa scaturire. La letteratura sul tema è sterminata, a cominciare dall’importante Jacobs, 1967 e le posizioni che la caratterizzano sono state sintetizzate recentemente da Goh, (2020), che analizza l’impulso sotto il profilo teorico e pratico, nella Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre e nelle opere pratiche della tarda fase jenese, ma non si concentra sulla funzione dell’impulso negli scritti di Fichte dopo il 1800. Nel corso di questo articolo vedremo che, lungi dal rappresentare un concetto significativo esclusivamente nella fase cosiddetta “jenese” del pensiero di Fichte (1794-1799), il tendere rappresenta uno strumento fondamentale per individuare gli sviluppi della riflessione trascendentale del filosofo di Rammenau.
[12] Lauth (2004, p. 90).
[13] Lauth (2004, p. 77 e p. 83).
[14] Su questo punto é molto chiaro Ivaldo(2015a).
[15] Infatti, anche l’idea secondo cui la assoluta spontaneità della ragione, che Fichte tematizza già con il primo principio della Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre, sarebbe “onnicomprensiva e all’origine di ogni mediazione e connessione”, affermata da Schnell (2020, p. 88), non riuscirebbe a rendere conto del primato della relazione tra spontaneità e altro da sé nella spiegazione della struttura della spontaneità stessa della ragione.
[16] Lauth (2004, p. 26).
[17] Per indicazioni sul significato delle trasformazioni metodologiche della WL nova methodo cfr. Radrizzani (1993), che, nel valorizzare la centralità della dimensione intersoggettiva in questa fase del pensiero di Fichte, offre tutti gli strumenti testuali, nonché bibliografici, per rendere conto di una interpretazione ‘ orizzontale’ del procedere fichtiano.
[18] Cesa (2002, p. 24).
[19] Su questo, oltre a Drouet (1972) e Breazeale (2013), Hotzel (2020), cfr. Gottlieb (2019) e Ternent (2022), che hanno, il primo, il merito di ricondurre l’Anstoss a una struttura immanente alla ragione e, il secondo, di interpretare Anstoss e Aufforderung come un identico momento della coscienza visto da angolature diverse. Queste riflessioni, tuttavia, non rendono conto delle implicazioni e degli sviluppi di questa struttura nel pensiero di Fichte dopo gli anni di Jena.
[20] Su questo cfr. Rockmore (2016) e Franks (2005, p. 318 e seg.) in cui si mostra come questa struttura possa essere applicata anche al rapporto metafilosofico tra filosofia trascendentale e coscienza comune. Sulla circolarità tra questi momenti e sul rapporto fra riflessione e autoriflessione, già tematizzato da Duso (1974), cfr. anche Thomas-Fogiel (2020), Rametta (1997), Bertinetto (2011) e (2020).
[21] Cfr. per una interpretazione di questo passaggio Lauth (1984, p. 27).
[22] GA II, 3, 239. Tra le molte ricerche che mettono in evidenza la funzione cruciale della Praktische Philosophie nella costruzione della prospettiva trascendentale di Fichte cfr. almeno Moiso (1979), Ivaldo (2012, p. 286-296), che offre una spiegazione chiara e sintetica della struttura del texto, Ivaldo (1992), Lauth (1989, p. 155-179), Hammacher (1993), Cecchinato (2009), von Manz (1997), Seliger (2010).
[23] Sulla deduzione delle categorie in Fichte cfr. Metz (1991), Bertinetto (2007), Thomas-Fogiel (2000), Ivaldo, (1992, p. 123-125).
[24] Per una discussione critica di questi passaggi, che esamina anche gli sviluppi teorici del modello fichtiano nella riflessione di Lauth, cfr. Ivaldo (2015b, p. 151 sg.), il quale, tuttavia, non tematizza in maniera specifica la concezione fichtiana del tendere.
[25] Cfr. Ivaldo (1992, p. 92).
[26] Si veda per analisi più approfondite in proposito Janke (1970, p. 164-166), Hammacher (1958, p. 36 e seg.), Gurwitsch (1924, p. 85).
[27] Sul rapporto tra tendere e impulso cfr. De Pascale (2002, p. 3-33).
[28] Su questa dinamica, che chiama in causa l’immaginazione produttiva, si veda Weibel (2008), che mette in risalto la continuità della riflessione di Fichte in questo senso.
[29] Cfr. GA, 1962/2013, IV, 2, p. 71 e GA IV, 3, p. 386. Sotto un profilo teorico più generale, la valorizzazione dell’impulso nella descrizione delle strutture trascendentali della coscienza, che troviamo nella nova methodo, permette di eliminare le contraddizioni riscontrabili nelle teorie dell’autocoscienza basate sul modello dell’“autoriferimento”, e in particolare quella della cosiddetta “evasività sistematica” (Ryle). Questa nozione attesterebbe la petizione di principio implicita nell’idea stessa di autocoscienza, nella misura in cui nella definizione di quest’ultima si impiegherebbero determinazioni che presuppongono ciò che si deve definire. Una teoria dell’autocoscienza basata su una concezione della natura dell’io come impulso, al contrario, sembrerebbe eludere questa difficoltà. Mediante la nozione di impulso, infatti, viene a realizzarsi un rapporto asimmetrico tra il momento in cui l’io è limitato e quello in cui l’io tende a superare la limitazione, tale che i termini in base a cui si realizza la comprensione di sé non risultino speculari come la teoria dell’evasività sistematica sembra sostenere. Quest’ultima si fonda su un modello univoco della soggettività, la quale viene pensata semplicemente come essenza rappresentante, vincolata al modello soggetto-oggetto, dove l’oggetto stesso appare sempre come un “dato” presupposto e stabile. La nozione di impulso mette in discussione proprio questa nozione di stabilità. Questa discussione, sviluppata negli ultimi anni da Thomas-Fogiel (2020), Franks (2005), Bertinetto (2007) e (2011), si radica in un dibattito più antico, su cui cfr. Ryle (1949 p. 195), Henrich (1970, p. 264 e seg.), Thugendhat (1979, p. 68 e seg.), Düsing (1995), Düsing (1992, p. 26). Questo dibattito è stato sistematizzato in riferimento alla concettualità specifica della nova methodo da Klotz (2001).
[30] Sul Trieb des Seins cfr. D’Alfonso (2009). Sulle reazioni di Fichte a questo contesto e sull’impatto che questa reazione ha sugli sviluppi teorici della WL fichtiana cfr. Breazeale (2008), che tuttavia non arriva a tematizzare la questione del tendere.
[31] Su questo cfr. Gabriel (2011, p. XVII-XVIII).
[32] Cfr. Reinhold (1801, II, p. 114).
[33] In questo senso l’impulso dell’essere non deve essere confuso con “l’impulso della materia” di cui parlava Bardili e che era semplicemente postulato come punto di innesco fattuale per la dinamica del sapere, né con una “anima del mondo”, di tipo schellinghiano. Secondo quanto lo stesso Fichte scrive già in una lettera del 31 maggio del 1801, non è una forza nascosta che struttura la natura organica, ma il nucleo irrazionale della ragione che ci permette di comprenderla
[34] Sull’importanza di questo frammento del 1808 come revisione dell’intero programma della WL cfr. Zöller (2001, p. 314).
[35] Sulla dimensione noumenale dell’io cfr. Zöller (1998).
[36] Questo punto è stato colto in maniera molto perspicua da Wurzer (1994). La sua interpretazione, che si concentra soprattutto sulle lezioni sui Fatti della coscienza del 1813 mette in risalto proprio il problema della ‘eccedenza’ implicita nella dinamica della apparizione, ciò che rende Fichte un critico del rappresentazionalismo moderno (sulla scia di Heidegger e Nietzsche) che tuttavia non implica una rinuncia alle potenzialità del sapere rappresentativo (p. 217).
[37] Nelle pagine seguenti indicheremo con la sigla TB\1810-11, l’esposizione delle Tatsachen des Bewusstseins del 1810-11 e con la sigla TB\1813 l’esposizione del 1813.
[38] Tra il 1810 e il 1814 Fichte tiene quattro corsi di TB: nel semestre invernale del 1810-11, in quello estivo del 1811, nell’autunno del 1811 e nell’inverno del 1813. Di questi corsi possediamo due versioni manoscritte di Fichte e diverse altre Nachschriften redatte dagli uditori. Nessuna delle versioni di queste lezioni fu pubblicata quando Fichte era ancora in vita. Solo il corso del 1810-11 fu predisposto per la pubblicazione, che tuttavia avvenne solo nel 1816 per volontà della moglie, Maria Johanna Rahn. Quello del 1813 apparve per la prima volta nel 1834, nel volume I delle Nachgelassene Schriften curate da Immanuel Hermann Fichte. Solo di recente, infine, sono state pubblicate le Nachschriften nell’edizione critica delle opere di Fichte curata dalla Bayerische Akademie der Wissenschaften (v. IV, 4-IV, 6). Il quadro storico, teorico e filologico definito da TB è particolarmente complesso, molto più di quanto la letteratura critica sia riuscita a mostrare negli ultimi anni. Sono infatti relativamente poche e non sempre specifiche le indagini dedicate ai Fatti della coscienza e alle relazioni che sussistono tra le diverse versioni di questi corsi di Fichte. Tra queste vanno senz’altro ricordate quelle di D’Alfonso (2007a), Drechsler (1955), Furlani (2004), Jacobs (2007); von Manz (2008), Schulte (1971), Schurr (1965), Heller (1974), Lentini (1992), Novembre (2011), Ferraguto (2010). Wurzer (1994) è uno dei pochi che si concentra specificamente sull’esposizione del 1813 e sul quale torneremo più avanti. Per una visione d’insieme dell’attività didattica svolta da Fichte a Berlino tra il 1810 e il 1814 cfr. Lauth (1999, pp. 16-17).
[39] Con questo termine Zöller (2013, p. 1) identifica il complessivo stile filosofico di Fichte costituito dal rifiuto di una concettualità precostituita e la variazione in actu exercito di un nucleo teorico generale.
[40] Cfr. per un chiarimento su questo sviluppo teorico Ferraguto (2010) e Bertinetto (2001), che discutono la relazione tra i fatti della coscienza e la logica trascendentale. Meno recente, ma più analitico rispetto alla questione che stiamo trattando resta Drechsler (1955), che resta una delle poche trattazioni compiute della struttura dei Fatti della coscienza del 1813.
[41] NW, I, p. 408: “Così come l’assoluto, è, il suo fenomeno è”.
[42] NW, I, p. 408: “Nella misura in cui il fenomeno è, comprende se stesso”.
[43] NW, 1834, I, p. 409: “Il fenomeno comprende se stesso completamente e assolutamente”.
[44]NW, I, 1834, p. 410: “In questa considerazione abbiamo trovato innanzitutto due momenti contrapposti del comprendere: comprendere dell’essere e comprendere del comprendere dell’essere”.
[45] Sul rapporto tra fenomeno ed essere in questa fase del pensiero di Fichte cfr. Brachtendorf (2008).
[46] Questa era la critica di Bardili al presunto soggettivismo di Fichte (Bardili, 1800, p. 12).
[47] Ivaldo, 2003, spiega molto bene il senso di questa espressione che Fichte usa, in un passo corrispondente del Diarium III del 1813 (GA, 1962/2013, II, 17, p. 61): “Il portarsi della vita a una immagine di se stessa - atto che è insieme un vedersi, ma anche un fissarsi (perciò viene usato in questo contesto il termine: estinzione [Erlöschung]) della vita immediata - è il luogo genetico della appercezione. Questa deve essere compresa come un ad-percepirsi, come un atto concomitante (trascendentale) in cui la vita assoluta si ripercuote in se stessa nell’io pur senza esaurirsi un questa autoaffezione”. Sulle articolazioni del rapporto essere-fenomeno-immagine nel diario si veda anche il più recente Bertinetto (2016).
[48] Cfr. Riehmann (1882, p. 217, p. 757).
[49] Si tratta di un’idea che Fichte aveva già praticato nella seconda edizione del Saggio di una critica di ogni rivelazione (GA, 1962/2013, I, 1, 141) dove sostiene che nella sua struttura originaria la volontà “non viene determinata per la prima volta da un oggetto dato, ma essa si dà il suo stesso oggetto mediante questa forma: se questa forma diviene oggetto di una rappresentazione, allora questa rappresentazione va chiamata oggetto della facoltà appetitiva. Questa rappresentazione è l’idea dell’assolutamente giusto”. Su una linea molto simile si muove Husserl, quando negli articoli di Kaizo, individua nella connessione tra ideale cooriginario al genere umano e riattivazione della volontà, le basi per una trasformazione etica della umanità (Husserl, 1950, XXVII, p. 21, p. 42). Su questo tema e sulle implicazioni teologiche della impostazione husserliana cfr. Nenon (2015).
[50] Cfr. per questa opzione ermeneutica, Fabbianelli (2009), oltre al già citato Brachtendorf (2008).