SULLA NECESSITÀ DELLA TRANSIZIONE, TRA DIALETTICA E STRUTTURA

 

Fabrizio Carlino[1]

 

Riassunto: Il concetto di transizione appare legato, nella teoria marxista, a una concezione dialettica del processo storico, nella misura in cui si presenta come una necessità derivante dallo sviluppo delle condizioni poste dalla vecchia società. Nell'opera di Louis Althusser, che alla metà degli anni Sessanta si impone nel dibattito marxista francese con posizioni critiche nei confronti di ogni residuo di filosofia della storia nel materialismo dialettico, il ruolo della transizione appare quanto mai problematico. Tuttavia, nella seconda metà degli anni Settanta il filosofo francese conduce una battaglia in difesa del concetto di dittatura del proletariato, legato a quello di transizione. Il presente articolo mira a rendere intelligibile questa apparente contraddizione. Si tenterà così di tenere insieme il meccanismo della strutturazione, che vieta l'idea di un passaggio dialettico al comunismo, e l'opposizione all'abbandono della prospettiva della dittatura del proletariato nell'urgenza della lotta contro l'eurocomunismo. Solo l'idea di un'azione coercitiva sugli elementi della struttura potrà sostituire la necessità dialettica nella sua funzione di dare fondamento alla conservazione del riferimento alla dittatura nel processo rivoluzionario.

 

Parole chiave: Transizione al comunismo. Dittatura del proletariato. Louis Althusser.

 

Introduzione

In un celebre passo tratto dalla Lettera a Weydemeyer, del 1852, Karl Marx (2008, p. 166) afferma che la novità della sua teoria non consiste nell’aver scoperto l’esistenza della classi, la cui anatomia era stata già descritta da "economisti borghesi", né la lotta di classe, il cui sviluppo storico era stato già studiato da "storici borghesi":

Ciò che io ho fatto di nuovo è stato: l) Dimostrare che l'esistenza delle classi è legata puramente a determinate fasi storiche di sviluppo della produzione; 2) che la lotta delle classi conduce  necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) che questa dittatura medesima non costituisce se non il passaggio all'abolizione di tutte le classi e a una società senza classi.

 

La necessità della dittatura del proletariato, che è soltanto un passaggio che conduce alla società senza classi, discende quindi per Marx dalla lotta di classe. Qualche precisazione su questo passaggio ci viene fornita in un altro brano, altrettanto noto, tratto dalla Critica al programma di Gotha: "tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato" (Marx, 2008, p. 75).

La dittatura del proletariato è dunque lo Stato della transizione rivoluzionaria al comunismo, cioè alla società senza classi. Da ciò possiamo già dedurre che questo Stato, che è lo Stato proletario, in quanto costituisce soltanto un passaggio, è destinato ad estinguersi una volta compiuto il passaggio, vale a dire una volta superata la divisione in classi della società, giacché lo Stato non ha ragione di esistere senza la lotta tra le classi. È infatti questa lotta che conduce necessariamente alla dittatura del proletariato. L’esistenza stessa delle classi è legata soltanto a determinate fasi storiche dello sviluppo della produzione, e dopo un necessario periodo di passaggio con la dittatura del proletariato, le classi stesse saranno soppresse. Il proletariato, come scrive Lenin (1999), sopprime se stesso come classe e così facendo sopprime tutte le classi e quindi anche "lo Stato come Stato". La necessità della dittatura del proletariato sembra quindi essere ricompresa nella necessità dialettica dell’intero processo storico che va dalla divisione in classi alla soppressione delle classi.

È ancora Lenin (1999) a darci qualche indicazione in più per comprendere questa necessità:

[...] la dottrina di Marx e di Engels sulla necessità della rivoluzione violenta si riferisce allo Stato borghese. Questo non può essere sostituito dallo Stato proletario (dittatura del proletariato) per via di "estinzione"; può esserlo unicamente, come regola generale, per mezzo della rivoluzione violenta.  […] La sostituzione dello Stato proletario allo Stato borghese non è possibile senza rivoluzione violenta. La soppressione dello Stato proletario, cioè la soppressione di ogni Stato, non è possibile che per via di "estinzione".

 

Viene qui da Lenin operata una distinzione, fondamentale per il nostro discorso, tra la necessità di abbattere lo Stato borghese, sostituendolo con la dittatura del proletariato, cioè lo Stato proletario, e la necessità dell’estinzione dello stesso Stato proletario.

L'ipotesi da cui prende le mosse il presente lavoro è che Althusser, tra gli anni Sessanta e Settanta, trovatosi di fronte a una disgiunzione tra queste due necessità, le abbia concepite come due necessità di natura diversa. Da un lato la necessità dialettica del processo che conduce alla soppressione delle classi e quindi all’estinzione dello Stato proletario, dall’altro la necessità politica della dittatura del proletariato.

A partire dagli anni Sessanta, Althusser ha infatti elaborato una critica della dialettica che sembra negare la necessità dialettica della transizione; gli effetti di questa critica della dialettica hanno portato però lo stesso Althusser, nel corso degli anni Settanta, a difendere l’altra necessità, quella dello Stato della transizione, cioè della dittatura del proletariato come concetto cardine dell’intera teoria marxista.

Cercheremo quindi di capire se e a quali condizioni sia possibile riaffermare, come tenta di fare Althusser, la necessità della dittatura del proletariato e la prospettiva dell’estinzione dello Stato, pur avendo rifiutato la necessità dialettica che sorregge il processo storico che porterebbe alla soppressione delle classi e quindi all’estinzione dello Stato.

 

1 Sulla critica della dialettica

Va anzitutto chiarito che oggetto della critica di Althusser non è la dialettica in sé, ma piuttosto la posizione di quanti stabiliscono una continuità tra la dialettica hegeliana e la dialettica di Marx. La metafora secondo cui Marx non avrebbe fatto altro che capovolgere la dialettica di Hegel, non renderebbe conto della vera e propria rottura operata da Marx, almeno il Marx del Capitale, nei confronti di Hegel. Questa rottura riguarderebbe principalmente il tipo di causalità in atto nella totalità hegeliana. Althusser (2006, p. 256-257) distingue tre tipi di causalità con cui la tradizione filosofia ha pensato il rapporto tra il tutto e le sue parti, ovvero l'efficacia della struttura – il tutto – sui suoi elementi: 1) una causalità meccanicistica, di origine cartesiana, basata su una concezione empirista dell'efficacia transitiva e analitica; 2) una causalità espressiva e idealista, di origine leibniziana, basata su una concezione idealista degli elementi come "pars totalis"; 3) una causalità strutturale o metonimica, con la quale Marx pone la basi per pensare materialisticamente l'efficacia all'interno di un "tutto strutturato a dominante", che permette di rigettare l'empirismo e l'idealismo delle due precedenti concezioni. Il modello "che domina tutto pensiero di Hegel" è quello espressivo: in ogni parte della totalità, rappresentata come una sfera (2008, p. 177-178), sarebbe contenuta l’essenza stessa della totalità. Ogni elemento del "tutto spirituale" non sarebbe altro che l'espressione della totalità stessa e i rapporti di causalità all’interno di questa totalità espressiva sarebbero tali per cui la causa conterrebbe già in sé l’effetto come suo sviluppo necessario. Come la totalità, anche il tempo in Hegel sarebbe così un tempo omogeneo, in cui l’Origine contiene già il telos. Dietro questa immagine di Hegel, vera o falsa che sia, Althusser sta prendendo di mira non tanto la filosofia hegeliana, quanto un certo marxismo, soprattutto francese, che si rappresentava il processo storico come un processo lineare e teleologicamente orientato, la cui destinazione sarebbe già decisa in anticipo e anche assicurata e necessariamente garantita perché già da sempre contenuta nella sua origine. Questa concezione lineare e telologica del processo storico sarebbe caratteristica di tutte le filosofie della storia, compresa quella che sottende un certo hegelo-marxismo per cui il processo storico non sarebbe altro che lo sviluppo della contraddizione, le cui tappe sono già decise in anticipo (Althusser, 2006, 2008).

Ora, questa critica della filosofia della storia, che si sarebbe introdotta surrettiziamente nel marxismo attraverso un "ritorno a Hegel" (Althusser, 1994), deve essere compresa in un contesto storico, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in cui le organizzazioni del movimento operaio internazionale dovevano confrontarsi con il processo di destalinizzazione e con la crisi sino-sovietica. Althusser interviene in un momento in cui emergeva l’esigenza di render conto di un processo storico che appariva tutt’altro che lineare e garantito, ma al contrario caratterizzato di arretramenti e fallimenti. Si trattava di pensare non più un progresso storico inarrestabile, ma il procedere discontinuo delle lotte e il blocco della transizione in Unione sovietica.

È così quindi che Althusser (2008) tenta di far emergere, dai testi di Marx successivi al 1845, un diverso tipo di causalità, che rompa con la dialettica hegeliana e che inauguri una nuova dialettica, specificamente marxista, che chiama causalità strutturale, precisando che questa causalità strutturale non sarebbe altro che la dialettica materialista stessa ripulita dalle scorie hegeliane.

Nella causalità strutturale non abbiamo più una totalità espressiva, in cui ogni elemento contiene la totalità, ma un tutto strutturato a dominante, nel quale gli elementi esistono solo nella loro articolazione. È la tesi del primato della struttura sugli elementi (Althusser, 2006), che implica che la causa non è più contenuta nell’effetto, perché la causa è la strutturazione stessa.

La strutturazione come causa non è presente immediatamente nei suoi effetti, come l’essenza era presente negli elementi della causalità espressiva, ma nell’articolazione degli elementi. Mentre nella totalità hegelo-marxiana avevamo lo sviluppo della contraddizione che determinava le tappe del processo storico, nel tutto della causalità strutturale la contraddizione non si sviluppa più ma si sposta, determinando condensazioni e surdeterminazioni all’interno della struttura stessa (Althusser, 2008). Anche la temporalità cambia: non abbiamo più il tempo unico omogeneo della totalità hegeliana, ma una temporalità multipla e complessa nella quale ogni articolazione della struttura può seguire un ritmo diverso (Althusser, 2006).

Si può già comprendere che questa concezione del tutto strutturato rende difficile pensare non solo la necessità della transizione, ma anche la sua possibilità. Se la struttura stessa determina l’articolazione dei propri elementi e la contraddizione non è più concepita come il motore di uno sviluppo lineare, il passaggio a una nuova struttura appare quanto mai problematico. Se gli elementi della struttura, insieme ai rapporti che costituiscono tali elementi, sono prodotti dalla strutturazione del modo di produzione capitalistico nella quale è escluso l’automovimento della contraddizione dialettica, risulta insomma difficile pensare la base oggettiva della transizione al comunismo.

E, ricordiamolo per inciso, sembra difficile anche fare appello all’azione di un soggetto rivoluzionario che nel pensiero di Althusser pare essere escluso.

 

2 Struttura e ripetizione

La tesi del primato della struttura sui suoi elementi, unita all’esclusione del soggetto come attore del processo storico, sembrano quindi indicare l’impossibilità di pensare il movimento: la struttura sembra condannata alla ripetizione, cioè a riprodurre le articolazioni tra gli elementi, spostando, condensando e surdeterminando le contraddizioni senza però consentire di determinare il passaggio a una nuova struttura.

Per uscire da questa impasse, utilizzerò una chiave interpretativa recentemente proposta da Fabio Bruschi (2020) basata su una dialettica tra virtuale ed attuale che attraverserebbe tutta l’opera di Althusser. Abbiamo visto che la struttura non può contenere in germe gli elementi del proprio superamento, altrimenti ci troveremmo di fronte ad un causalità espressiva: la tesi del primato della struttura sugli elementi sembra implicare che nella struttura gli elementi non esistano in sé, ma solo nella loro strutturazione. La dinamica della struttura sembra quindi essere una dinamica della ripetizione (Marchesi, p. 25-26). Tuttavia, proprio perché esistono solo nella loro articolazione nella struttura, alcuni elementi possono rimanere allo stato virtuale. E a una serie di condizioni, che vedremo, possono attivarsi e innescare una nuova strutturazione nella quale riceverebbero piena esistenza, potrebbero cioè articolarsi nel tutto e in seguito riprodurre la loro articolazione, in modo che la struttura duri e l’articolazione si ripeta. Una struttura determinata può così produrre elementi e rapporti tra elementi che rimangono virtuali fin quando non si articolano in una nuova struttura.

Quindi la riproduzione di questi rapporti è sottoposta alla condizione di cambiare struttura, di passare a una nuova struttura che consenta agli elementi virtuali nella struttura precedente di attivarsi. Questa dinamica sembra essere la traduzione, nei termini della causalità strutturale, del processo dialettico nel quale ogni modo di produzione genera le condizioni del proprio superamento. Va da sé che in questa traduzione qualcosa di essenziale cambia.

Vediamolo con un esempio storico. Nella dialettica althusseriana, le condizioni del passaggio dal modo di produzione feudale al modo di produzione capitalistico sono esemplificate in un primo momento, sulla scorta di Marx, nelle due figure del possessore di capitale e il possessore della forza lavoro (Althusser, 1994, p. 579-587). Queste figure sono hanno origine dal modo di produzione feudale e saranno la condizione della nascita del modo di produzione capitalistico, ma ciò soltanto dopo il loro incontro: prima del loro incontro rappresentano rispetto al modo di produzione capitalistico solo una virtualità. Il loro incontro avrebbe potuto non aver luogo, poiché ognuna di queste figure non contiene in sé il suo sviluppo storico (Althusser, 2018a, p. 146-148). Non solo: il loro incontro avrebbe potuto essere effimero, avrebbe potuto non durare, cioè avrebbe potuto non ripetersi. Il tutto che risulta dalla "presa" dell'incontro, scrive Althusser (2006, p. 70-71)

[...] non è anteriore alla "presa" degli elementi ma posteriore e perciò avrebbe potuto non "far presa" e, a maggior ragione, "l'incontro potrebbe non aver luogo" [...]. Ogni modo di produzione è costituito di elementi indipendenti gli uni dagli altri, ciascuno risultato di una storia propria, senza che esista alcun rapporto organico e teleologico tra queste storie diverse.

 

Se l'incontro "ha fatto presa" ed è durato, è perché ha trovato le sue specifiche condizioni di esistenza, che sono le condizioni della riproduzione dell’incontro tra le due figure, che diventano così nel modo di produzione capitalistico il detentore dei mezzi di produzione e il non-detentore dei mezzi di produzione, cioè gli elementi del rapporto di produzione.

Risulta chiaro come cambia qui la dialettica: non c’è più la necessità dello sviluppo della contraddizione nell’automovimento del processo storico, che crea insieme, in una sola temporalità gli elementi, i rapporti e le condizioni, ma abbiamo la produzione di elementi che corrispondono a temporalità diverse, che provengono da strutture diverse e che possono provocare un cambiamento solo se si incontrano e se trovano le condizioni necessarie alla loro riproduzione.

Ora, come stanno le cose quando si tratta della transizione al comunismo? In alcuni scritti degli anni Settanta, Althusser (1978, p. 16; 2018a, p. 131) sembra pensare che siamo già nella transizione. Il che però non significa che ci siano già le condizioni reali per realizzare il passaggio al comunismo, ma solo che ci sono gli elementi, cioè delle pure virtualità, non dei rapporti reali, ma solo la possibilità di questi rapporti che potranno poi dare realtà agli elementi e riarticolarli in una nuova struttura.

Credo che in questo modo vada interpretata un’altra affermazione di Althusser (1978, p. 16), in margine a un convegno organizzato dal Manifesto a Venezia, secondo cui il comunismo sarebbe già visibile negli interstizi dell’attuale formazione sociale, nelle isole di comunismo: non che il comunismo esista già, ma che l’attuale modo di produzione abbia già prodotto gli elementi per il passaggio a un nuovo modo di produzione, solo che questi elementi sono ancora virtuali perché non ci sono ancora le condizioni per la riproduzione della loro articolazione in una nuova struttura.

Il problema è a questo punto come creare le condizioni. In una prospettiva dialettica si potrebbe dire: il modo di produzione capitalistico stesso produce le condizioni per il suo superamento, ma abbiamo visto che in Althusser la struttura attuale produce solo alcuni elementi virtuali e non l’articolazione che consentirebbe l’incontro duraturo tra questi elementi.

Emergono qui le conseguenze dell’abbandono della dialettica: non c’è alcuna necessità interna al processo che porterà questi elementi virtuali a fare presa e attivarsi in una nuova struttura, ed è per questa ragione che Althusser deve pensare un’altra necessità, una necessità politica che è la dittatura del proletariato, dittatura che impone con il dominio della classe proletaria le condizioni per il passaggio alla società senza classi. 

Insomma, se viene meno la necessità di un’evoluzione storica nella quale l’attuale formazione sociale produce insieme gli elementi e le condizioni del suo superamento, rimane nondimeno la necessità politica di passare per la dittatura affinché l’incontro tra gli elementi, che è la condizione strutturale del passaggio a un nuovo modo di produzione, faccia presa e duri. In questo senso Althusser sembra disgiungere la necessità dialettica della transizione e la necessità tutta politica della dittatura del proletariato, cioè dello Stato della transizione. Vediamo ora in cosa consiste l’altro genere di necessità insito nel concetto di dittatura che Althusser difende.

 

3 In difesa della dittatura

Nel 1976, di fronte alla decisione del Partito comunista francese (PCF) di abbandonare la prospettiva della dittatura del proletariato, Althusser (1977) decide di prendere posizione in difesa di ciò che ritiene essere il concetto cardine della teoria marxista. Questa battaglia contro l'abbandono del concetto di dittatura va compreso come un momento di una lotta condotta contro lo stalinismo sin dagli anni Sessanta. Althusser, infatti, allo stesso tempo difende la dittatura del proletariato e combatte lo stalinismo, o meglio combatte lo stalinismo proprio attraverso la difesa della dittatura del proletariato. E ciò sembra porre un primo problema, perché il regime staliniano sembrava presentarsi proprio come la realizzazione della dittatura del proletariato. A tal punto che il PCF, nello smarcarsi dallo stalinismo, al fine di rendere evidente il rigetto delle pratiche staliniane, alla metà degli anni Settanta, lo fa proprio abbandonando il concetto di dittatura del proletariato, convalidando così l’associazione tra Stalinismo e dittatura – seppur solo implicitamente poiché non la dittatura staliniana non è annoverata tra le motivazioni dell'abbandono della prospettiva della dittatura (BALIBAR, 1976).

Per andare allo stesso tempo contro lo stalinismo e contro la reazione antistaliniana che abbandona la dittatura del proletariato, Althusser (2016) mostra da un lato come lo stalinismo, lungi dall’aver realizzato la dittatura del proletariato, l’ha in realtà negata, o meglio l’ha abbandonata senza averla né realizzata né superata; dall’altro come negli anni Settanta i partiti comunisti europei abbiano creduto di opporsi allo stalinismo con l’abbandono della prospettiva della dittatura del proletariato, ma in realtà non abbiano fatto altro che prolungare gli effetti dello stalinismo, poiché non ne hanno prodotto una critica rigorosa. Occore quindi analizzare in un primo momento la critica di Althusser al modo in cui Stalin ha inteso e realizzato la dittatura e in un secondo momento la critica al modo in cui i partiti comunisti europei, per rigettare la cosiddetta deviazione staliniana, hanno abbandonato la prospettiva della dittatura, senza tuttavia fare realmente i conti con lo stalinismo di cui al contrario hanno finito col riprodurre gli errori teorici iniziali.

Dobbiamo chiederci anzitutto con quali argomenti sia possibile sostenere che Stalin, lungi dall'aver realizzato la dittatura del proletariato, sarebbe responsabile del suo abbandono. In primo luogo, Stalin afferma dall’inizio degli anni trenta la necessità di rafforzare lo Stato. In questo modo, si pone in contraddizione con la prospettiva data dalla dittatura del proletariato, che è quella dell’estinzione dello Stato, e non del suo rafforzamento (Althusser, 2016, p. 228). Abbiamo visto che lo Stato borghese va abolito, mentre lo Stato-non-Stato proletario è destinato all’estinzione, giacché la ragion d’essere dello Stato risiede nella lotta di classe, essendo la lotta di classe a rendere necessario il ricorso al dominio di una classe su un’altra attraverso lo Stato – prima la classe borghese sulla classe proletaria attraverso la dittatura della borghesia, poi della classe dei proletari sulla classe borghese attraverso la dittatura del proletariato. Infatti, una fase di transizione politica al comunismo si rende necessaria in ragione del fatto che dopo l’abbattimento dello Stato borghese persisterebbe, per un certo periodo, la lotta di classe, che rende necessaria la dittatura del proletariato, cioè il socialismo come transizione al comunismo.

Insomma, non solo la dittatura della borghesia, ma anche la dittatura del proletariato è necessaria fintanto che la società è divisa in classi e quindi che la lotta di classe necessita della dominazione di una classe su un’altra. Tuttavia, si tratta di un periodo di transizione appunto, che secondo Althusser (2016) deve mirare sin da subito alla fine della divisione in classi e all’estinzione dello Stato che ne consegue. Se la prospettiva è quella del superamento della società divisa in classi, allora necessariamente dobbiamo porci sin da subito anche nella prospettiva dell’estinzione dello Stato, perché lo Stato non avrà più ragion d’essere nel momento in cui si sarà superata definitivamente la divisione in classi e avrà quindi cessato la lotta di classe.

 

4 Lotta di classe e divisione in classi

In effetti, in diversi scritti Althusser (2016, 2018a) insiste sulla opportunità di considerare lo Stato non solo per la sua funzione, cioè quella di essere strumento di dominazione, ma anche per la sua causa, cioè la lotta di classe. Lo Stato è anche risultato, prodotto della lotta di classe e non solo strumento di dominazione (Althusser, 2016, p. 217). Perché insistere sullo Stato come risultato? Perché sottolineare che la causa dello Stato è la lotta di classe, consente di ribadire la necessità della prospettiva dell’estinzione dello Stato: come detto, la dissoluzione della società divisa in classi implica necessariamente la dissoluzione dello Stato. Ora, affermando la necessità di rafforzare invece lo Stato, Stalin nega questo nesso e volta le spalle alla prospettiva dell’estinzione dello Stato. E come opera Stalin questo cambio di prospettiva? Lo opera dissociando la lotta di classe e l’esistenza delle classi – e veniamo così al secondo aspetto della critica al modo in cui lo stalinismo realizza la dittatura del proletariato.

Nel 1936, Stalin dichiara conclusa la fase della lotta di classe: l'Unione sovietica avrebbe già superato la fase della lotta tra le classi (Althusser, 2016). Questa dichiarazione avrebbe dovuto portare con sé di necessità l’estinzione dello Stato, in virtù del nesso che abbiamo evidenziato tra lotta di classe e Stato nella teoria marxista. Tuttavia, Stalin soggiunge che, pur essendo scomparsa la lotta tra le classi, permangono nondimeno le classi. Ed essendo ancora in URSS la società divisa in classi, lo Stato sarebbe ancora necessario. Ecco dunque come si giustifica il rafforzamento e la perennizzazione della transizione, che prolungandosi indefinitamente e avendo perso la prospettiva dell'estinzione dello Stato, sembra perdere anche i caratteri propri della transizione.

Ora, per Althusser questa posizione, che afferma della persistenza delle classi pur nell'assenza di lotta di classe, contiene una contraddizione impossibile da difendere. Infatti, egli afferma (2016) con forza l’identità della lotta di classe e dell’esistenza delle classi, sotto il primato della lotta di classe, e lo fa naturalmente in fuzione anti-stalinista. Egli sostiene così che la lotta di classe e l’esistenza delle classi formano un’unità inscindibile, non c’è l’una senza l’altra, e tuttavia è la lotta di classe che precede logicamente l’esistenza delle classi. Gli ideologi borghesi, scrive Althusser (2016, p. 210) "pensano prima l'esistenza delle classi, e la lotta delle classi viene in seguito". Marx invece pensa, scrive Althusser (2016, p. 212)

[...] in tutt'altra concezione. Contrariamente ai teorici borghesi, che pongono una differenza tra le classi e la lotta di classe, e pongono in generale il primato delle classi sulla lotta di classe, Marx pone l'identità della lotta di classe e delle classi e, all'interno di questa identità, il primato della lotta di classe sulle classi.

 

Questo primato della lotta di classe sull’esistenza delle classi viene giustificato con l’origine del modo di produzione capitalista. In diversi scritti, Althusser (2016; 2006) afferma infatti che all’origine del modo di produzione capitalista abbiamo l’incontro tra il proprietario dei mezzi di produzione e il possessore della forza lavoro. Presi singolarmente, non possono formare una classe e sono solo elementi prodotti dal precedente modo di produzione. Solo a partire dal loro incontro un nuovo mondo "fa presa", cioè si instaurano quei rapporti di produzione che stanno a fondamento del modo di produzione capitalistico. Così come la struttura, il rapporto di produzione, domina sugli elementi della produzione, pur essendone indissociabile, allo stesso modo la lotta di classe ha il primato sull’esistenza delle classi, pur costituendo un’unità.

Ciò che ci interessa è che, affermando il primato della lotta di classe, Althusser intende mettere in evidenza la contraddizione della posizione staliniana: non è possibile affermare, come pretende Stalin, l’esistenza delle classi e la fine della lotta di classe, perché senza la lotta di classe la divisione in classi di dissolverebbe necessariamente da sé.

Va sottolineato che la posta in gioco era enorme, poiché se non si riconosce la lotta di classe non si riconosce il fondamento stesso della necessità della dittatura. Lo stalinismo non riconosce la persistenza della lotta di classe in una società ancora divisa in classi, e quindi nella critica di Althusser non solo cade in una contraddizione insolubile, ma priva la dittatura del proletariato del suo fondamento, che è precisamente la persistenza dell’identità di lotta di classe e divisione in classi nel socialismo, e allo stesso tempo eternizza la dittatura perché perde di vista la prospettiva dell’estinzione dello Stato. Per questo motivo, l’esperienza storica della dittatura del proletariato in Unione sovietica non solo non è per nulla la realizzazione del concetto di dittatura del proletariato, ma nella prospettiva althusseriana ne rappresenta la negazione. Lo stalinismo porta così con sé alcuni effetti ideologici di cui si tratta ora di misurare l'incidenza sulla linea del Partito, in particolare del PCF.

 

5 Dallo stalinismo all'eurocomunismo

L’opposizione allo stalinismo che segue il disgelo avviato alla fine degli anni Cinquanta porta con sé la difficoltà a conservare la dittatura del proletariato come parola d’ordine. Alla dittatura staliniana si oppone la volontà di introdurre istanze democratiche nelle procedure decisionali (Balibar, 1976). La deviazione staliniana partecipa così alla confusione tra la dittatura come concetto della dominazione di classe, da un lato, e dall’altro la dittatura come forma politica, forma di governo, come regime più o meno autoritario o dispotico.

Si trattava quindi per Althusser di ristabilire la distinzione, che è andata persa nella reazione democratica allo stalinismo, tra forma di governo dittatoriale e concetto marxista di dittatura. In che modo ristabilire questa distinzione? Ricordando anzitutto che la necessità della dittatura del proletariato deriva dalla realtà della dittatura della borghesia e che in ultima istanza non è sui rapporti giuridici e politici che si fonda il dominio di classe borghese, perché se così fosse appunto il dominio di classe coinciderebbe con il regime giuridico politico. Secondo Althusser (2016, p. 213) il dominio di classe si fonda invece su rapporti extra-giuridici e al di sopra della politica, si fonda cioè su rapporti di forza insiti nei rapporti di produzione. La violenza di questi rapporti richiede la dittatura in quanto posta al di sopra delle leggi.

La detenzione dei mezzi di produzione da parte della classe dei capitalisti [...] non è un rapporto giuridico, ma un rapporto di forza ininterrotto, dalla violenza aperta dell'espropriazione nel periodo dell'accumulazione primitiva fino all'estersione contemporanea del pusvalore (Althusser, 2016, p. 213).

 

Quindi la dittatura riposa sul fatto che i rapporti di classe sono rapporti di forza, che sono identici all’esistenza stessa delle classi. In questo senso la dittatura della borghesia, da cui deriva la necessità della dittatura del proletariato, è in ultima istanza violenza, che si esercita però attraverso la politica, il diritto e l’ideologia. Gli apparati repressivi dello Stato infatti non intervengono se non in via eccezionale. Normalmente, la dominazione si esercita con altri mezzi, giuridici, politici e ideologici appunto, che rendono possibile la sottomissione automatica degli individui ai rapporti di produzione ai quali fanno da supporto, senza che ci sia bisogno di ricorrere all’esercizio diretto della violenza. La dominazione di classe è così totalizzante e attraversa l’intero corpo sociale attraverso quelli che Althusser (2011) chiama apparati ideologici di Stato.

Ricapitolando: fin quando c’è divisione in classi c’è lotta di classe e fin quando c’è lotta di classe c’è dittatura intesa come dominazione di classe attraverso lo Stato, dominazione totale che esclude in principio ogni tipo di collaborazione tra le classi, poiché si tratta per l'appunto di una dominazione totalizzante di una sola classe che penetra finanche nei corpi degli individui, attraverso l’ideologia, quindi, nella prospettiva althusseriana, attraverso lo Stato.

Se però si dimentica tutto ciò, cioè si dimentica che la dittatura è una necessità che deriva dalla lotta di classe, e che la dittatura così intesa è la dominazione totale di una sola classe alla volta senza possibilità alcuna di alleanze tra classi, ecco che può sorgere una reazione alla dittatura staliniana intesa come forma di governo in nome di una forma di governo democratica, fondata su alleanze di classe per il governo.

È precisamente ciò che accade nel corso degli anni Settanta nella corrente detta eurocomunista, nella quale Althusser (2016, 2018b) inserisce i due maggiori partiti comunisti europei, quello italiano e quello francese, ed è contro l’eurocomunismo che Althusser combatte quando difende la dittatura del proletariato. Infatti, nel gennaio del 1976, il segretario del PCF Georges Marchais decreta l’abbandono della prospettiva della dittatura del proletariato, senza che tale scelta sia stata discussa in seno al partito. Tale abbandono è giustificato dal fatto che questa prospettiva sarebbe stata superata dagli eventi storici recenti. Lo stalinismo ha reso inutilizzabile il riferimento alla dittatura e la situazione storica attuale l’ha reso caduco.

Althusser (1977) reagisce duramente a questa decisione, rigettandola su due livelli. In primo luogo, sottolinea la contraddizione che consiste nell’aver preso tale decisione senza che ci sia stato un vero dibattito tra i militanti di base del partito. Se da un lato il segretario del PCF intendeva smarcarsi dallo stalinismo abbandonando il concetto di dittatura – cosa peraltro illusoria, come abbiamo visto, perché riposa sulla confusione tra forma politica e dominazione –, dall’altro reintroduce delle procedure decisionali autoritarie, quelle sì propriamente staliniane: in virtù della distinzione tra forma politica autoritaria e concetto marxista di dittatura, Althusser difende l’idea che si possa essere a favore allo stesso tempo della conservazione del concetto di dittatura e dell’introduzione di procedure decisionali democratiche in seno al partito comunista. In secondo luogo, che è il più essenziale, Althusser afferma (1977, p. 33) che non si può abbandonare un concetto scientifico, quale è il concetto di dittatura del proletariato, concetto cardine della teoria marxista che è una teoria scientifica. Infatti, argomenta, nessun evento storico, nessuna evoluzione del contesto politico può determinare la caducità di una teoria scientifica. Una teoria scientifica rimane vera indipendentemente dagli eventi. Non ha senso, quindi, affermare, come fa il segretario del PCF, che la dittatura del proletariato è un concetto che va abbandonato perché superato dagli eventi storici, a meno che non si decida di rigettare la teoria marxista tout court.

Dobbiamo tuttavia ancora chiederci a cosa corrisponda la decisione del PCF di abbandonare il concetto di dittatura. Essa corrisponde anzitutto alla volontà di marcare una rottura con lo stalinismo. Questa è la ragione più evidente: il termine dittatura è divenuto inutilizzabile perché rinvia alla storia dei regimi totalitari, di cui lo stalinismo farebbe parte al pari delle diverse forme di fascismo. Ed è per questo che Althusser insiste tanto sulla distinzione tra regime politico e dominazione di classe. Ma soprattutto, se il PCF abbandona la dittatura del proletariato nel 1976 è perché il concetto stesso è diventato incompatibile con la politica avviata negli anni precedenti. Dal 1972, i partiti socialista e comunista lavoravano a un programma comune in vista della costruzione dell’Unione della sinistra, sulla scia di quanto anche il PCI stava mettendo in atto all’interno di una strategia europea, dell’eurocomunismo appunto. In questa strategia, attraverso un certo uso della nozione di Capitalismo monopolistico di Stato, che non possiamo approfondire in questa sede, la transizione si trovava ad essere anticipata, già in atto nei paesi a capitalismo avanzato: in Francia negli anni Settanta si era già entrati in una fase di transizione, secondo le analisi del PCF e del Partito socialista (Programme Commun, 1972).

Transizione verso cosa? Ovviamente non verso il comunismo, ma verso il socialismo, con l’alleanza di tutte le forze della sinistra, cioè con un’alleanza popolare interclassista. In questa prospettiva, lo Stato non è più visto come il prodotto della lotta di classe che comporta la necessità della dominazione di una sola classe su un’altra, ma come il luogo di un lungo processo fondato sulla collaborazione tra classi nello Stato e che porterà al socialismo. La dittatura del proletariato come transizione al comunismo diventa effettivamente superflua, poiché siamo già nella transizione e questa transizione può avvenire con la partecipazione del partito comunista all’interno dello Stato borghese. È essenzialmente contro questi presupposti dell’abbandono della dittatura del proletariato che Althusser insiste, l’abbiamo visto, sottolineando due punti: 1) la transizione è un processo contraddittorio che porta al comunismo (e non al socialismo) attraverso la dittatura e dura finché dura la lotta di classe, il che impone la prospettiva dell’estinzione dello Stato e non quella del socialismo; 2) finché dura la lotta di classe, una sola classe esercita il potere attraverso lo Stato, il che esclude ogni possibilità di partecipazione della classe operaia alla gestione dello Stato borghese ed ogni possibilità di partecipazione della borghesia nella transizione.

 

Conclusione

Dopo aver riportato la battaglia politica condotta da Althusser nel corso della seconda metà degli anni Settanta alla sua opposizione allo stalinismo, di cui l'eurocomunismo degli anni Settanta non è altro che l'evoluzione, possiamo trarre qualche conclusione sul rapporto tra la necessità della dittatura del proletariato riaffermata per opporsi alla linea del Partito e l'esclusione della necessità dialettica insita nel concetto di transizione al comunismo.

In uno scritto del 1982, pubblicato postumo, Althusser (2006, p. 57) si chiede "cosa ci vuole perché si dia effettivamente società":

Bisogna che lo stato di incontro sia imposto agli uomini, che l'infinito della foresta, come condizione di possibilità del non incontro, si riduca al finito per ragioni esteriori, che delle catastrofi naturali la frammentino in spazi limitati, per esempio in isole, in cui gli uomini siano costretti all'incontro e costretti ad un incontro che duri: costretti da una forza più grande di loro.

 

Questa costrizione, attraverso cui si impone con la forza agli uomini la ripetizione dell'incontro, sembra aggiungere una condizione supplementare alla strutturazione che articola gli elementi: affinché l'articolazione tra gli elementi nati dalla vecchia società duri nel tempo e dia vita a una nuova società, occorre l'esercizio di un'azione coercitiva. Le basi epistemologiche poste da Althusser negli anni Settanta, privando il processo storico del motore dialettico della sua evoluzione, rendono problematico il passaggio alla nuova società, dato che le condizioni strutturali non contengono in sé il principio del loro sviluppo e non sono quindi più sufficienti per pensare la transizione. Per chi come Althusser avverte l'urgenza politica di pensare la transizione nonostante il rifiuto di ogni processo teleologicamente orientato, la dittatura del proletariato rappresenta la condizione decisiva della realizzazione di una transizione non più garantita, ma esposta alla capacità di esercitare un dominio effettivo in grado di riprodurre l'incontro degli elementi, che costituiscono soltanto le condizione oggettive, e far durare la loro nuova articolazione in una nuova società.

Con le sue riflessioni sul materialismo aleatorio degli anni Ottanta, Althusser sembra in realtà proseguire, sul piano filosofico, la sua difesa della dittatura del proletariato, compresa come tentativo di pensare le condizioni politiche della realizzazione del processo di transizione. Se accorda tanta importanza a questa battaglia, è probabilmente perché aveva colto una tendenza, già in atto negli anni Settanta, a suo avviso illusoria e votata allo scacco, che consiste nel condurre una lotta di trincea che mira a conquistare un po’ alla volta spazi di potere, oppure a creare potere popolare. Questa strategia è votata allo scacco, secondo Althusser (2018b), perché non tiene conto che la dittatura di classe esclude non solo ogni forma di condivisione del potere, ma anche ogni forma di penetrazione della classe dominata negli apparati di Stato. È questa la ragione per cui egli insiste nell'affermare che lo Stato della borghesia non è semplicemente uno strumento nella mani della classe dominante, ma è il prodotto della lotta della classe dominante e non può di conseguenza in alcun modo essere utilizzato nella transizione, la quale per questo motivo deve, l'abbiamo visto, necessariamente prendere la forma della dittatura del proletariato in vista dell’estinzione dello Stato.

 

ON THE NECESSITY OF TRANSITION, BETWEEN DIALECTICS AND STRUCTURE

 

Abstract: The concept of transition appears to be linked, in Marxist theory, to a dialectical conception of the historical process, insofar as it presents itself as a necessity resulting from the development of the conditions posed by the old society. In the work of Louis Althusser, who in the mid-1960s imposed himself on the French Marxist debate with positions critical of any residue of the philosophy of history in dialectical materialism, the role of transition appears as problematic as ever. However, in the second half of the 1970s, the French philosopher led a battle in defence of the concept of the dictatorship of the proletariat, linked to that of transition. This article aims to make this apparent contradiction intelligible. An attempt will thus be made to hold together the mechanism of structuration, which prohibits the idea of a dialectical transition to communism, and the opposition to the abandonment of the perspective of the dictatorship of the proletariat in the urgency of the fight against euro-communism. Only the idea of coercive action on the elements of the structure will be able to replace the dialectical necessity in its function of giving foundation to the preservation of the reference to the dictatorship in the revolutionary process.

Keywords: Transition to Communism. Dictatorship of the proletariat. Louis Althusser.

 

Referencias

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Ricevuto: 24/03/2023

Accettato: 26/05/2023

Pubblicato: 22/10/2023



[1] Groupe de Recherches Matérialistes, Paris – France. ORCID: 0000-0001-7034-6566. E-mail: fbr.carlino@gmail.com