“ETICA ED ESTETICA SONO TUTT’UNO” RIFLESSIONI SU TLP 6.421
Gabriele Tomasi[1]
Potevo essere me stessa – ma senza stupore, e ciò vorrebbe dire qualcuno di totalmente diverso. (W. Szymborska, Nella moltitudine)
RIASSUNTO: Per il primo Wittgenstein etica ed estetica erano tutt’uno. Scopo del saggio è fornire un’interpretazione di questa concezione. Esaminando il modo in cui è proposta nel Tractatus e considerando alcune annotazioni dei Quaderni 1914-1916 si evidenzia che l’unità di etica ed estetica è in un modo di vedere il mondo per cui esso non appare come fonte di limitazione. L’etica è un’estensione al mondo – alla vita – della capacità di conferire signifi cato che nell’arte si realizza nei riguardi di oggetti particolari. Affermando l’unità di etica ed estetica Wittgenstein attira l’attenzione sul fatto che la radice dell’etica è in un certo modo di vedere le cose, in un atteggiamento verso la vita. Si tratta della prospettiva di un valore non connesso a come il mondo è e che è evocato dalla meraviglia per l’esistenza del mondo.
PAROLE CHIAVE: Wittgenstein. Estetica. Etica. Valore.
In una proposizione della parte conclusiva del Tractatus logico-philosophicus (1921) Wittgenstein sostiene che “[...] etica ed estetica sono tutt’uno” (TLP 6.421).[2] Chiamerò l’idea così formulata “Tesi dell’Unità” e la indicherò con la sigla TU. Un pensiero simile a TU è formulato dal fi losofo alcuni anni dopo, nella Conferenza sull’etica (1929-1930). In essa egli afferma di intendere l’etica secondo la spiegazione del termine data da Moore nei Principia Ethica e cioè come “la ricerca generale su ciò che è bene”, ma di usare però il termine in un senso “un poco più lato”, ossia in un senso, di fatto, che include quella che egli ritiene la parte “[...] più essenziale di ciò che di solito viene chiamato estetica” (LE, 4/7). L’unità dei due domini sembra reinterpretata come un’intersezione: a fare tutt’uno con l’etica, intesa in un senso un po’ più lato di quello dato da Moore al termine, sarebbe la parte più essenziale dell’estetica. Qual è il senso che Wittgenstein attribuisce a “etica” perché l’etica possa comprendere la parte più essenziale dell’estetica?
Nel Tractatus TU è avanzata commentando alcune affermazioni relative alla nozione di valore. Nella Conferenza Wittgenstein spiega che, nel senso “un poco più lato” in cui egli intende l’etica, cioè la “ricerca su ciò che è bene”, essa ha più o meno lo stesso signifi cato di “ricerca su ciò che ha valore”.3 Si può ipotizzare che etica ed estetica siano tutt’uno in quanto sono entrambe una ricerca su ciò che ha valore. Ma come va intesa quest’unità? Wittgenstein sta sostenendo che, per certi aspetti, i due ambiti coincidono? O intende forse dire che, almeno fi no a un certo punto, esse hanno lo stesso oggetto? Inoltre, sta magari stabilendo una sorta di priorità dell’etica sull’estetica o viceversa?
Sono queste le domande cui cercherò di rispondere nel saggio. Lo farò basandomi, per l’interpretazione di TU, oltre che sul Tractatus e sulla Conferenza, W. Methlagl. Salzburg: Otto Müller, 1969 (WITTGENSTEIN, L. Lettere a Ludwig von Ficker. Trad. it. di D. Antiseri. Roma: Armando, 1974); LE = “Wittgenstein’s Lecture on Ethics”, The Philosophical Review, 74, p. 3-12, 1965 (WITTGENSTEIN, L. Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, a cura di M. Ranchetti. Milano: Adelphi, 1967, p. 5-19); TB = Tagebücher 1914-1916, in: Ludwig Wittgenstein Werkausgabe, Band 1. Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1984, p. 87-187 (Quaderni 1914-1916, in: WITTGENSTEIN, L. Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916. Trad. it. di A. G. Conte. Torino: Einaudi, 1998, p. 127-239); TLP = Tractatus logico-philosophicus, in: Ludwig Wittgenstein Werkausgabe, Band 1, Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1984, p. 9-85 (WITTGENSTEIN, L. Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916. Trad. it. di A. G. Conte. Torino: Einaudi, 1998, p. 21-109); WWK = Wittgenstein und der Wiener Kreis, in: Ludwig Wittgenstein Werkausgabe, Band 3. Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1984 (il numero di pagina della traduzione italiana è quello dei passi tradotti in WITTGENSTEIN, L. Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, a cura di M. Ranchetti. Milano: Adelphi,1967, p. 21-27).3 Il passo continua indicando altre espressioni di signifi cato simile. Wittgenstein sostiene che, invece di ricerca su ciò che è bene, egli avrebbe potuto dire “su ciò che è realmente importante, o sul signifi cato della vita, o su ciò che fa la vita meritevole di essere vissuta, o sul modo giusto di vivere”. Wittgenstein pensa che, guardando a queste frasi, si possa “avere un’idea approssimativa di ciò di cui l’etica si occupa” (LE, 5/7).sui Quaderni 1914-1916. In essi sono formulate alcune idee fondamentali per la comprensione di TU.[3] Come vedremo, il modo in cui Wittgenstein usa “etica” ed “estetica” è piuttosto diverso da quello corrente. Con “etica” non intende la disciplina normativa impegnata a indagare la fondazione o la validità dei principi e dei criteri dell’agire morale, le ragioni dei comportamenti e delle valutazioni, ecc.; e con “estetica” non intende la ricerca fi losofi ca sull’arte, sulle esperienze che chiamiamo “estetiche”, sulle proprietà estetiche delle cose, sulla natura dei giudizi in cui attribuiamo tali proprietà, ecc. Benché le sue rifl essioni non siano prive di rilievo anche per queste ricerche, occorrerà tener conto del modo piuttosto singolare in cui Wittgenstein parla di etica ed estetica. Egli sembra concepirle come defi nite da un modo di vedere più che da ambiti di oggetti e attività. Consideriamo brevemente, prima di entrare nel merito di TU, come potrebbe essere concepita l’unità di etica ed estetica. Qualche cenno alla storia della fi losofi a può essere d’aiuto per individuare alcune possibilità fondamentali.
A prima vista l’idea che etica ed estetica, o i loro domini, non siano separate risulta contro-intuitiva. Banalmente, persone apparentemente prive di sensibilità estetica spesso compiono con sicurezza il bene, mentre persone di gusto educato possono essere moralmente insensibili. Opere con un apprezzabile contenuto morale sono spesso esteticamente scadenti, mentre altre, che presentano aspetti riprovevoli, si lasciano nondimeno apprezzare per il loro valore artistico. E’ discutibile se ciò sia il segno di un mancato “allineamento” della sensibilità estetica individuale o collettiva a quella per il bene o se dipenda dal fatto che la natura del bene e quella del bello sono diverse. Benché la bellezza possa essere considerata un esempio di valore intrinseco come il bene morale, bellezza e bontà, così come le proprietà estetiche e quelle morali, sembrano concettualmente distinte. La bellezza può essere considerata un valore intrinseco se con “intrinseco” s’intende non strumentale; non sembra tuttavia essere un valore di questo tipo, se “intrinseco” si defi nisce in relazione alla fonte del valore. La bellezza sembra essere un valore in relazione agli esseri umani senza avere perciò un mero valore strumentale. Il bene morale appare un valore intrinseco in quanto ha, per così dire, in sé il suo valore e non lo riceve da un’altra fonte.[4] Distinta appare, inoltre, la normatività di cui le due nozioni sono portatrici.
A dispetto di queste differenze, anche una rapida occhiata alla tradizione fi losofi ca è suffi ciente per vedere come l’idea di una fondamentale somiglianza dei due domini appartenga ai sui retaggi. Nel mondo greco essa ha un rifl esso già a livello di vocabolario nel riferimento del termine che sta per “bello”, to kalón, all’idea del fare qualcosa in modo buono o giusto; soprattutto ha una giustifi cazione sul piano fi losofi co. Paradigmatica al riguardo è la concezione platonica. Da dialoghi come il Fedro e il Simposio emerge chiaramente che, per Platone, la “natura del bello” è strettamente correlata a quella del bene.[5] Una versione di questa tesi si trova poi nella Summa Theologiae di S.Tommaso. Vi si legge che “il bello si identifi ca con il bene, salvo una semplice differenza di ragione”.[6] La bellezza e la bontà sono fondamentalmente identiche perché sono basate sulla stessa cosa, cioè sulla forma.
La tesi dell’identità di bello e buono è testimoniata anche in epoche successive. Shaftesbury, ad esempio, sostiene che la bellezza e il bene sono la stessa cosa in quanto sono costituiti dalla stessa proprietà e cioè l’armonia. In forme variate (e spesso indebolite) l’idea della connessione delle due nozioni, e dunque di etica ed estetica, circola diffusamente nel pensiero moderno. Kant, come è noto, ne fornirà una variante nella concezione della bellezza come simbolo del bene, formulata nel § 59 della Critica della capacità di giudizio. Schiller, muovendo da una revisione critica di elementi centrali della fi losofi a kantiana, oltre che da una diagnosi del tempo che coglieva acutamente il contrasto “[...] fra l’odierna forma di umanità e […] quella greca”, presenterà la bellezza come una “condizione necessaria dell’umanità”. La tesi che Schiller avanza è molto forte: “[...] è attraverso la bellezza che ci si incammina alla libertà”.8
Questi pochi cenni mostrano che la tesi di Wittgenstein ha radici profonde e continuità storica. Inoltre, aiutano a comprendere la prima cosa che colpisce nella formulazione di TU, e cioè l’apparente adozione di una comprensione al singolare dei termini “etica” ed “estetica”. Wittgenstein sembra considerarli come nomi di due distinti e omogenei ambiti di valore.[7] A dispetto della sua indifferenza al fatto se altri, prima di lui, avessero pensato ciò che egli aveva pensato (cf. TLP, Pref.), egli appare, su questo punto, l’erede della tradizione appena evocata, per la quale l’unità di bellezza e bontà è stata un tema costante. La sua lettura di Tolstoj e Schopenhauer ha senz’altro avuto un ruolo nel formare le sue idee al riguardo.
Gli esempi ricordati sono utili anche sotto un altro aspetto: essi aiutano a identifi care almeno alcune delle forme in cui l’idea dell’unità di etica ed estetica può presentarsi. La schematizzazione che ora proporrò è in parte artifi ciosa perché non sempre con “etica” ed “estetica” si intendono le stesse cose; nondimeno essa può fornire una guida per interpretare la posizione di Wittgenstein. Almeno due possibilità sono facilmente intuibili: si può pensare (a) che la bellezza in qualche modo sia propedeutica al bene, oppure si può assumere (b) che il bene e la bellezza siano ontologicamente la stessa cosa, siano esemplifi cazioni della stessa cosa e dunque che le nozioni del bello e del bene non possano essere comprese isolandole l’una dall’altra.[8] La schematizzazione è in termini di bellezza e bene (morale) e non di etica ed estetica. Ciò non ne pregiudica la validità. La bellezza e il bene sono i due tipi di eccellenza che rispettivamente le pratiche estetiche e quelle etiche cercano di riconoscere e/o realizzare.[9]
Secondo l’interpretazione che proporrò, la concezione di Wittgenstein è riconducibile alla seconda delle due forme individuate. L’identità di bene e bellezza può però essere intesa in senso forte oppure in senso debole: nel primo caso ciò che si afferma è la coincidenza, sul piano metafi sico, delle esemplifi cazioni del bene e del bello; nel secondo caso, invece, si sostiene semplicemente l’esistenza di una correlazione signifi cativa, a qualche livello, delle due nozioni.
La mia impressione è che in TU Wittgenstein mostri di propendere per una lettura forte dell’identità di bene e bellezza. Solo in senso piuttosto lato si può però dire che TU sia una tesi metafi sica. La formulazione di TU corrisponde piuttosto al tentativo di suggerire la necessità di porre le nostre vite in un certo tipo di prospettiva: una prospettiva esterna al sé individuale e al mondo dei fatti. Potremmo defi nirla “la prospettiva del valore” o “la prospettiva del senso”. Entriamo ora nel merito dell’interpretazione di TU, cominciando da una considerazione del modo in cui è introdotta nel Tractatus.
TU è presentata nella forma tipografi camente singolare di un’aggiunta parentetica a una proposizione che contiene altre due tesi assai importanti. Vale la pena di riportarla integralmente:
È chiaro che l’etica non può formularsi.
L’etica è trascendentale.
(Etica ed estetica sono tutt’uno) (TLP 6.421).
Per come si presenta, TU sembra una spiegazione dell’affermazione che l’etica è trascendentale. Se si guarda alle proposizioni che la precedono, l’affermazione non risulta subito chiara. Il sistema di numerazione adottato nel Tractatus la colloca tra i commenti della proposizione 6.4; più precisamente, essa è un commento a un commento (la 6.42) della proposizione con cui si apre la parte del libro che – per quanto esprimersi così non sia del tutto appropriato – può essere considerata di argomento etico (6.4-6.522). Questa proposizione recita: “Tutte le proposizioni sono di pari valore” (TLP 6.4).
Che cosa intende dire Wittgenstein, affermando che le proposizioni hanno tutte lo stesso valore? E, soprattutto, perché introduce con quest’affermazione il discorso sull’etica?
La 6.4 può essere interpretata in (almeno) due modi. L’uno non esclude l’altro, anzi, come vedremo, nel commento di Wittgenstein si intrecciano. La prima interpretazione deriva direttamente dalla concezione della proposizione elaborata nel Tractatus. Secondo tale concezione ogni proposizione è una delle molte possibilità di un identico spazio ovvero rappresenta uno stato di cose sullo sfondo di alternative ugualmente possibili. Perciò non può rappresentare che qualcosa di accidentale. È sotto quest’aspetto che le proposizioni hanno lo stesso valore ossia sono sullo stesso livello come lo sono i fatti che esse raffi gurano. La seconda interpretazione intende la 6.4 come una proposizione normativa ovvero come l’affermazione che, nella prospettiva del valore, nessuna proposizione ovvero nessun stato di cose è migliore o peggiore di un altro. Si tratta di una tesi normativa piuttosto singolare. I commenti, in una trama complicata di concezioni metaetiche e di indicazioni sull’atteggiamento da assumere di fronte alla vita, aiutano a capire il punto di Wittgenstein. Il primo, piuttosto elaborato, è il seguente:
Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore.
Se un valore che abbia valore v’è, esso dev’esser fuori d’ogni avvenire ed essere-così. Infatti, ogni avvenire ed essere-così è accidentale. Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori del mondo. (TLP 6.41).
Wittgenstein considera accidentale tutto ciò che è nel mondo ovvero “[...] ciò che accade” (TLP 1), i fatti, “[...] il sussistere di stati di cose” (cf. TLP 2). L’accidentalità dei fatti non contrasta con la possibilità di catturare le regolarità fra tipi di eventi attraverso leggi causali. Per Wittgenstein, “[...] solo connessioni conformi ad una legge sono pensabili” (TLP 6.361); “[...] ciò che la legge di causalità deve escludere non può neppure descriversi”, non può accadere (TLP 6.362). Egli rifi uta, però, la necessità naturale: “[...] una necessità cogente, per la quale qualcosa debba avvenire poiché qualcos’altro è avvenuto, non v’è. V’è solo una necessità logica” (TLP 6.37) e “[...] fuori della logica tutto è accidentale” (TLP 6.3). Le leggi causali caratterizzano, dunque, l’accidentale, ciò che può avvenire.
Questa concezione del mondo fa da sfondo all’introduzione delle nozioni di valore e senso del mondo. Poiché, per Wittgenstein, “[...] il mondo e la vita sono tutt’uno” (TLP 5.621), l’espressione “senso del mondo” può essere considerata equivalente a “senso della vita”. Wittgenstein sembra voler presentare la distinzione tra mondo e senso del mondo (o valore) nei termini di una distinzione tra ciò che è accidentale e il non-accidentale. Perché il valore dovrebbe essere non-accidentale? La tesi appare discutibile. Spesso accade che qualcosa abbia valore per ragioni del tutto contingenti – conservo dei sassolini colorati che per me hanno un grande valore perché mi ricordano la prima vacanza al mare con quella che allora era la mia fi danzata - o perché è connesso a qualcos’altro che si considera per sé di valore. Non sembra, tuttavia, che Wittgenstein stia fornendo un criterio per isolare oggetti o stati di cose per sé di valore ovvero non accidentalmente di valore. Egli sembra piuttosto guardare alla fonte del valore. La proposizione allude alla possibilità che qualcosa renda non accidentale l’“avvenire ed essere-così”. Essa sottolinea, però, che questo qualcosa dovrà essere fuori del mondo perché, se fosse nel mondo, sarebbe a sua volta accidentale. Ciò che Wittgenstein chiama “valore” o “senso del mondo” ha a che fare con questa fonte extra-mondana. L’argomento di Wittgenstein potrebbe essere rafforzato, osservando che il valore deve essere fuori del mondo anche perché, se fosse nel mondo, sarebbe una parte di esso, ed è diffi cile immaginare che una parte possa conferire senso al tutto di cui è, appunto, una parte.[10]
Quale che sia questa fonte, dal passo citato si evince che essa, e con essa il valore, non ha natura di fatto. Ora, poiché le proposizioni rappresentano “[...] il sussistere e non sussistere degli stati di cose” (TLP 4.1), ne consegue che non potranno esserci “proposizioni dell’etica”. Questo è, appunto, quanto chiarisce il secondo commento alla 6.4: “Le proposizioni non possono esprimere nulla di ciò che è più alto” (TLP 6.42).
Appare sottinteso che l’etica ha a che fare con il valore o il senso del mondo, qui raccolti sotto l’espressione “ciò che è più alto” a rimarcare, presumibilmente, il contrasto con quanto è nel mondo: il più alto non è esprimibile perché è “fuori” del mondo.[11] TU è formulata nel commento a quest’ultima proposizione. Prima di esaminarlo, è però opportuna qualche altra osservazione sul contesto di questi pensieri di Wittgenstein, allargando lo sguardo alla macrosezione cui le proposizioni di argomento etico appartengono.
La proposizione principale della sezione cui TU appartiene è la 6. Si tratta della proposizione in cui Wittgenstein indica la forma generale della proposizione secondo la quale ogni proposizione è una funzione di verità di proposizioni elementari intese come immagini di stati di cose possibili. Rispetto a essa, il passaggio, nella serie dei suoi commenti, agli argomenti etici, coglie il lettore di sorpresa. Ciò che precede la 6.4 non sembra avere molto a che vedere con i temi del senso del mondo e del valore. Nei commenti alla 6 Wittgenstein discute la natura delle proposizioni della logica, delle proposizioni matematiche e quella delle leggi di natura e formula considerazioni generali sulla necessità ovvero discute proposizioni che non corrispondono al modello descrittivo indicato dalla forma generale della proposizione. L’impressione è che, giunto a un certo punto, egli inserisca nel testo questioni estranee ai problemi di cui stava trattando. Che cosa hanno a che fare il senso del mondo e il valore con la forma generale della proposizione?
In effetti, i due argomenti sono molto più collegati di quanto a prima vista possa sembrare. Prima di tutto perché anche le proposizioni sul valore confi gurano un dominio del linguaggio che diverge dalla forma paradigmatica individuata dalla 6. Indicando la forma generale della proposizione, Wittgenstein assolve il compito che si era posto nel Tractatus, di tracciare un limite all’espressione dei pensieri (cf. TLP, Pref.). L’idea della limitazione sta o cade con l’idea dell’unità formale del linguaggio e dunque con l’idea di una realtà unitaria.[12]
La proposizione 6 rende con mezzi simbolici una forma precedentemente individuata con l’espressione “È così e così” (TLP 4.5). A dispetto del suo carattere informale, l’espressione è molto precisa: essa corrisponde alla forma di ogni possibile situazione (Sachlage) ed è perciò la forma stessa della realtà,[13] “l’essenza del mondo” (TLP 5.4711). Dato l’isomorfi smo di mondo e linguaggio sostenuto nel Tractatus, la forma proposizionale generale non può che corrispondere alla forma del mondo. Nelle intenzioni di Wittgenstein, con l’indicazione della forma generale della proposizione si realizzava, però, anche quella “delimitazione” dell’etico, “per così dire, dall’interno” di cui parlerà nella celebre lettera scritta a Ludwig von Ficker presumibilmente alla fi ne di ottobre o agli inizi di novembre del 1919, alludendo a un “senso etico” del libro.[14] Tracciando un limite all’espressione dei pensieri, il libro delimita così anche il luogo in cui il valore non può essere ovvero il mondo dei fatti.
Che il valore non abbia natura di fatto è senz’altro una tesi metaetica. Ridurre a questo la concezione suggerita nella “parte etica” del Tractatus vorrebbe dire, tuttavia, cogliere solo un aspetto del discorso di Wittgenstein. Come dicevo, in esso concezioni metaetiche si intrecciano con la formulazione di un atteggiamento verso il mondo. Compiendo un passo indietro e poi uno avanti nel testo possiamo raggiungere questa prospettiva più ampia sul discorso di Wittgenstein. Da essa si scorge quella che credo sia la ragione in un certo senso più profonda della connessione fra la tematica logica e la questione del valore.
Cominciamo con il passo avanti. Nel Tractatus Wittgenstein individua l’essenza della proposizione in una forma che consente la costruzione di ogni proposizione applicando un’operazione a proposizioni elementari (cf. TLP 6.001, 6.002). Il libro promuove così una visione per cui la pensabilità del mondo ci dà anche l’unità e i limiti del mondo. Cogliere la forma che costituisce l’unità del linguaggio, è accedere a una visione del mondo come totalità unitaria e delimitata di stati di cose e insieme cogliere il carattere accidentale del contenuto del mondo in quanto esso si dà nello spazio del possibile. Ciò permette di distinguere tra il che del mondo, la sua semplice presenza, la sua datità, e il come. Wittgenstein chiama questo “il Mistico”:
Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è. (TLP 6.44).La visione del mondo sub specie aeterni è la visione del mondo come totalità – delimitata -.Il sentimento del mondo come totalità delimitata è il sentimento mistico. (TLP 6.45).
A dispetto dell’etichetta “Mistico”, ciò cui Wittgenstein pensa è strettamente connesso alla logica. Lo conferma un passo indietro nel testo. In una sezione precedente egli aveva sostenuto che l’esperienza “che ci serve per la comprensione della logica” è “l’esperienza che qualcosa è”. Contestualmente aveva, però, sottolineato che “ciò non è un’esperienza”:
La logica è prima d’ogni esperienza – d’ogni esperienza che qualcosa è così. Essa è prima del Come, non del Che cosa. (TLP 5.552).
Secondo Wittgenstein, le proposizioni della logica sono tautologie, sono dei casi-limite di proposizioni i cui elementi sono combinati in modo tale che ogni contenuto descrittivo è eliminato. Perciò sono considerate indicative dei limiti del mondo: esse non asseriscono nulla sul mondo, ma, “descrivendo” le proprietà logiche delle costanti, e dunque delle proposizioni, strutturano lo spazio logico, rappresentano la “armatura logica” (TLP 4.023 e 6.124) della realtà: “Che le proposizioni della logica siano tautologie mostra le proprietà formali – logiche – del linguaggio, del mondo” (TLP 6.12).
L’armatura rappresentata dalla logica fa tutt’uno con le possibilità di confi gurazione di fatti e proposizioni; essa determina lo spazio logico (cf. TLP 3.42) ovvero lo spazio delle proposizioni, della rappresentazione dei fatti. Perciò Wittgenstein attribuisce alla logica un carattere “trascendentale” (TLP 6.13), vale a dire di condizione della raffi gurazione. Lo spazio logico è però uno spazio di possibilità; collocati in esso, i fatti attuali sono solo alcuni degli stati di cose possibili. Vedere il mondo nel “grande specchio” (TLP 5.511) della logica è perciostesso vederlo nella sua radicale contingenza. Al carattere trascendentale della logica è così correlata la presenza del mondo, il suo semplice esserci, quello che poi verrà chiamato “il Mistico”, l’inesprimibile “che è” del mondo.[15] Semplicemente, l’esistenza del mondo non è un fatto;18 l’esistenza della totalità dei fatti non può essere una parte della totalità ossia un fatto; pertanto non possiamo formarci di ciò un’immagine logica.
La cosa curiosa è che Wittgenstein sembra collegare l’”esperienza” di questo esser-dato e il punto di vista dal quale qualcosa come il valore o il senso si fanno presenti. Il collegamento è esplicito nella Conferenza sull’etica. In essa l’esperienza dell’esistenza del mondo – propriamente la meraviglia per la sua esistenza (“I wonder at the existence of the world”) - è evocata per veicolare l’idea di un “[...] valore assoluto o etico” (LE, 8/12-13) ossia del tipo di valore che per il Tractatus è “fuori del mondo”, cioè fuori “d’ogni avvenire ed esserecosì”. L’etica ha a che fare con questo valore; perciò non possono esserci proposizioni dell’etica.
C’è una singolare corrispondenza tra etica e logica: come non abbiamo, in senso stretto, esperienza del “Che cosa” che è prima della logica, così non abbiamo esperienza del valore. E come l’espressione del “che è” del mondo, del miracolo della sua esistenza, non è in qualche proposizione, bensì nell’esistenza stessa di un linguaggio, cioè di nomi dotati di signifi cato e di proposizioni che hanno senso,[16] così non abbiamo proposizioni etiche; l’etica è al più testimoniata nella tendenza ad “avventarsi contro i limiti del linguaggio” (LE, 11-12/18), nel tentativo di andare, con le proposizioni, al di là del linguaggio signifi cante, cioè al di là del mondo, del “luogo” in cui il valore non può essere.
Come si è visto, sostenendo che “l’etica non può formularsi”, Wittgenstein le attribuisce un carattere trascendentale. Alla luce della tesi avanzata nella 6.41 sul carattere extra-mondano del valore, può sembrare che “trascendente” sarebbe stata una qualifi cazione più appropriata. Così, del resto, egli qualifi cava l’etica in un’entrata dei Quaderni (cf. TB 30.7.16). Tuttavia credo che quella del Tractatus non sia una svista.
Riassumiamo. Wittgenstein concepisce la logica come “trascendentale”. Egli pensa che il mondo si dia in uno spazio di possibilità strutturato dalla logica. Questa concezione porta con sé l’idea dell’unità del mondo e insieme una visione della sua radicale contingenza. Wittgenstein esprime questa visione qualifi cando il darsi del mondo come “il Mistico”. Usando quest’espressione egli sembra trasmettere quasi il senso dell’emergenza dell’essere, della creazione.[17] Come si è accennato, nella Conferenza sull’etica Wittgenstein torna sul tema dell’esistenza del mondo. Egli parla della sua meraviglia per l’esistenza del mondo e la descrive come una meraviglia per qualcosa che tuttavia non si potrebbe concepire diversamente: non possiamo immaginare il mondo come non esistente (cf. LE, 13-14). Wittgenstein chiarisce però che l’oggetto della meraviglia è proprio il semplice esserci del mondo – il Che - e non l’essere del mondo in un certo modo – il Come –, benché ci si possa certo meravigliare che il mondo intorno a noi sia così com’è. Egli descrive l’esperienza di meravigliarsi per l’esistenza del mondo, dicendo: “[...] è l’esperienza di vedere il mondo come un miracolo (as a miracle)” (LE, 11/17).
L’associazione della meraviglia per l’esistenza del mondo alla visione di tale esistenza come miracolo non è una semplice suggestione lessicale dovuta al fatto che l’inglese wonder – come il tedesco Wunder – può voler dire sia meraviglia sia miracolo. Essa ha un senso abbastanza preciso: Wittgenstein cerca di caratterizzare un modo di vedere le cose. La meraviglia che qualcosa esista non è esprimibile nella forma di una domanda e non può essere tolta da una risposta (cf. WWK, 68/23). Meravigliarsi di qualcosa non signifi ca coglierlo come problematico, come un dato bisognoso di spiegazione. Le spiegazioni vanno al come non al che. Nella meraviglia per l’esistenza del mondo il punto non è la sua inesplicabilità, bensì un modo di vedere il mondo. Similmente miracolo non è, se non in senso relativo, ciò che la scienza non ha ancora spiegato. In quello che, per Wittgenstein, è il senso assoluto del termine “miracoloso”, nessun fatto è miracoloso in se stesso. Tale senso è correlato a un modo di guadare le cose radicalmente diverso da quello scientifi co: “[...] il modo scientifi co di guardare un fatto – scrive Wittgenstein – non è il modo di guardarlo come un miracolo” (cf. LE, 11/17). Qual è il signifi cato di queste osservazioni per l’etica?
Mettiamo assieme alcuni dati. Come si ricorderà, per Wittgenstein, se c’è un valore, esso dev’essere fuori d’ogni avvenire ed essere-così. L’accidentale avvenire ed essere così, cui è diretta la considerazione scientifi ca del mondo, è del tutto indifferente per il valore. La dimensione altra dal come del mondo è quella del che. È a questa dimensione che la Conferenza collega l’idea di un valore assoluto o etico e precisamente alla meraviglia per l’esistenza, per il “che è” del mondo. La meraviglia è un modo di vedere l’esistenza del mondo: è il vederla come un miracolo e non come un problema da risolvere. Questo suggerisce che “fuori del mondo” non indichi tanto un luogo “esterno” al mondo - il mondo è tutto ciò che c’è. La “dimensione” evocata con quell’espressione forse non è un luogo; forse Wittgenstein vuol rinviare a qualcosa di connesso a un modo di vedere:[18] meravigliarsi del mondo – della vita – vuol dire non coglierlo come problematico, accettare l’avvenire ed essere-così per ciò che è, ossia qualcosa di accidentale, di contingente. Credo che con l’affermazione del carattere trascendentale dell’etica Wittgenstein voglia suggerire proprio che nell’etica abbiamo a che fare con qualcosa di profondamente diverso dalla ricerca di una risposta alla domanda sul signifi cato, sul valore della vita (cf. TLP 6.521). Come vedremo subito, il fatto che TU sia formulata come un chiarimento dell’affermazione che l’etica è trascendentale non è casuale.
I passi rilevanti per l’interpretazione del punto in questione sono contenuti nei Quaderni. In particolare le tre entrate seguenti mi sembrano determinanti: “L’opera d’arte è l’oggetto visto sub specie aeternitatis; e la vita buona è il mondo visto sub specie aeternitatis. Questa è la connessione tra arte ed etica” .
Il miracolo per l’arte (das künstlerische Wunder) è che il mondo v’è. Che v’è ciò che v’è. (TB 7.10.16)
L’essenza del modo di vedere artistico è vedere il mondo con occhio felice? (TB 20.10.16).
Infatti c’è pur qualcosa nella concezione che il bello sia il fi ne dell’arte. E il bello è appunto ciò che rende felice. (TB 21.10.16).
Il primo passo citato costituisce l’incipit schopenhaueriano di un’annotazione più lunga.[19] Esso suggerisce chiaramente che la connessione tra etica e arte sta essenzialmente in un modo di vedere. Possiamo supporre che nell’appunto Wittgenstein attribuisca ad “arte” all’incirca lo stesso signifi cato che attribuisce a “estetica” nel Tractatus. Infatti, egli non sembra considerare l’opera d’arte nel suo aspetto di artefatto; “arte” e “opera d’arte” sembrano indicare qualcosa come un modo di vedere e il suo risultato. Nella stessa entrata il modo di vedere artistico è contrapposto a quello “consueto” come un vedere le cose “dal di fuori” rispetto a un vederle “dal di dentro”, nello spazio e nel tempo e dunque nella loro connessione ad altre cose, nel contesto di stati di cose (cf. TB 7.10.16). Vedere una cosa dal di fuori sembra voler dire coglierla come un tutto delimitato, “quale mondo” e non “quale cosa tra cose”. È questo modo di vedere che la rende “signifi cante” (TB 8.10.16).[20]
L’arte (l’estetica) è dunque qualcosa come uno sguardo trasformante. In parte si tratta naturalmente di una metafora. Come vedremo nel prossimo paragrafo, sembra corrispondere meglio a ciò che Wittgenstein vuol dire, pensare questo sguardo come un atteggiamento verso le cose piuttosto che come un’attività di qualche tipo. Una prima conclusione che è possibile trarre dalle parole di Wittgenstein è allora la seguente: se l’affermazione che etica e estetica sono tutt’uno è effettivamente un’esplicazione della tesi che l’etica è trascendentale, ciò che essa indica è che l’etica ha tale carattere in quanto è, come l’arte, un modo di vedere. Si tratterà di capire cosa ciò possa voler dire.
La seconda entrata citata contiene un’indicazione importante circa ciò che, nella visione artistica, conferisce signifi cato all’oggetto. Il pensiero in essa espresso si chiarisce considerando l’entrata successiva, la terza delle tre citate sopra. In essa Wittgenstein pare rispondere alla domanda, posta nella seconda entrata, se l’essenza del modo di vedere artistico sia vedere il mondo con occhio felice. La domanda è intrigante perché l’arte ha spesso a che fare con realtà tragiche e dolorose. Ciò che Wittgenstein annota, e cioè che il bello è ciò che rende felice, aiuta a capire in che senso si possa rispondere affermativamente alla domanda.
Per lo più il bello nell’arte non è in ciò che essa rappresenta, ma nel come lo rappresenta. Ciò si può intendere nel senso che l’arte, in accordo con certi principi formali, conferisce unità al contenuto rappresentato. Non può, tuttavia, essere questo senso di bellezza che Wittgenstein ha in mente.24 La prima entrata suggerisce che egli stia piuttosto pensando a qualcosa come una capacità dell’arte di confi gurare un atteggiamento, un modo di dirigere l’attenzione alle cose. L’affermazione che il bello è “ciò che rende felice”, letta sullo sfondo di quanto sostenuto nella prima entrata, porta a congetturare che Wittgenstein consideri l’(opera d’)arte e la vita buona, cioè la vita felice, “esemplifi cazioni” della visione sub specie aeternitatis. L’annotazione del 20.10.16 – la nostra seconda entrata - aggiunge al quadro un elemento importante; essa suggerisce che ciò cui l’arte dirige l’attenzione sia eminentemente il semplice esserci delle cose. Lo sguardo artistico “trasforma” in opera d’arte anche l’oggetto più insignifi cante perché lo lascia apparire sotto l’aspetto del miracolo. La bellezza cui l’arte tende sembra consistere in questo.
Per Wittgenstein, vedere “artisticamente” le cose vuol dire riceverle non come dati da spiegare o utilizzare a qualche scopo, bensì considerandole nella loro semplice datità. La visione artistica non è diretta all’“avvenire ed essere-così”, ma alla presenza delle cose. Vedere una cosa sub specie aeternitatis o come opera d’arte signifi ca vederla “con tutto lo spazio logico” (TB 7.10.16) ovvero con la consapevolezza del possibile, delle sue possibilità di combinazione con altre cose. Ciò che per Wittgenstein desta meraviglia non è che i fatti siano in un modo particolare, ma che vi siano fatti, che vi siano le possibilità che ci sono.[21] Ma perché questo sguardo sarebbe “felicitante”? E cosa rivela, in merito a ciò che Wittgenstein intende con “valore assoluto o etico”, il collegamento del senso di quest’espressione all’esperienza artistica di vedere il mondo come un miracolo? Che cosa suggerisce questo radicare l’etica nell’esperienza del puro esserci del mondo?
La risposta più ovvia alla prima domanda è che lo sguardo artistico è felicitante perché vedere il mondo sub specie aeternitatis è vederlo in modo disinteressato, da una posizione di distanza, di distacco e dunque di “rinuncia” e Wittgenstein sembra aver pensato che la vita felice sia appunto la vita informata da quest’atteggiamento (cf. TB 13.8.16). Credo, tuttavia, che questa risposta sfi ori soltanto il punto centrale della questione, al quale si arriva solo cercando di rispondere alla seconda domanda.
Wittgenstein presenta il collegamento dell’idea di valore assoluto o etico alla meraviglia per l’esistenza del mondo come “[...] una questione del tutto personale”: questa è per lui l’esperienza “per eccellenza”; altri potrebbero trovare esempi diversi (LE, 8/12). Con ciò non è inserito un elemento di arbitrarietà nel discorso. Wittgenstein vuole soltanto evidenziare il carattere personale delle cose che sta dicendo ovvero - così credo si debba intendere il punto - il loro essere espressione di un atteggiamento di base verso il mondo. Le osservazioni dai Quaderni citate sopra sembrano delineare un’etica normativa riducibile all’unico invito di vedere il mondo in un certo modo e cioè artisticamente, “con occhio felice”.[22] Ciò che tale invito sottende è, però, un pensiero piuttosto complesso. Cerco di abbozzare un’ipotesi interpretativa.
Come si è visto, Wittgenstein sembra attribuire alla visione artistica un potere di trasformazione in riferimento al signifi cato dell’oggetto cui è diretta. Tale potere ha, però, effetti anche sul soggetto; esso produce, si potrebbe dire, un mutamento nel carattere dell’autocoscienza o, forse meglio, nella defi nizione di se stessi, della propria “posizione” rispetto al mondo. Wittgenstein sembra pensare che, quando una cosa è vista “dal di fuori” ovvero sub specie aeternitatis, essa diventa il mondo dell’osservatore. Questo modo d’esprimersi proietta sulla visione artistica il pensiero fondamentale del solipsismo: il mondo è il mio mondo; e la sua immediata conseguenza: rispetto al mondo l’io si trova contratto a limite (cf. TLP 5.641 e TB 2.8.16); esso diventa il “punto inesteso” (TLP 5.64) cui è coordinata la realtà.[23] Lo sguardo felicitante è dunque quello di un io che si è fatto puro limite del mondo? La “verità” (TLP 5.62) contenuta nel solipsismo e cioè che ogni esperienza è da un punto di vista, che il mondo è il mondo coordinato a un io, sembra avere un risvolto etico-estetico. Si tratta di capire quale sia. Che Wittgenstein riconosca tale risvolto pare attestato dal fatto che, nei Quaderni, l’entrata che apre una serie di osservazioni dedicate a Dio e al senso della vita inizia con un chiaro riferimento al tema del solipsismo:
Che so di Dio e del fi ne della vita? Io so che questo mondo è.Che io sto in esso, come il mio occhio nel suo campo visivo. (TB 11.6.16).
Stare nel mondo come l’occhio nel suo campo visivo signifi ca non stare nel mondo; nel campo visivo troviamo il contenuto dell’esperienza visiva non l’occhio. Di quest’esperienza possono far parte anche le immagini rifl esse dei nostri occhi. Ma in questo caso – osserva Michael Morris - l’occhio non ci è presentato come il nostro occhio è presentato a noi stessi quando guardiamo ad altre cose, cioè come il fuoco del campo visivo.[24] L’immagine usata da Wittgenstein suggerisce appunto che l’io non appartiene al mondo, non è una sua parte (cf. TLP 5.631 e 5.632); è piuttosto il centro della prospettiva unitaria da cui il mondo è compreso. Questo fa del mondo il mio mondo (cf. TLP 5.62).[25] L’io per cui si può fare quest’affermazione non è ovviamente l’io psicologico; quest’ultimo è uno dei fatti del mondo; è, invece, quello che Wittgenstein chiama “il soggetto metafi sico” (TLP 5.641). Ora, il duplice modo in cui Wittgenstein si riferisce all’io ha un parallelo sul piano pratico: “Della volontà quale portatore dell’etico non può parlarsi. E la volontà come fenomeno interessa solo la psicologia” (TLP 6.423).
Nei Quaderni vi sono parecchi riferimenti a una nozione non psicologica di volontà. In alcune osservazioni molto suggestive Wittgenstein collega tale nozione a quella del soggetto metafi sico. Si legge, ad esempio, in un’entrata: “Se la volontà non fosse, non vi sarebbe nemmeno quel centro del mondo che chiamiamo Io e che è il portatore dell’etica” (TB 5.8.16).
Cos’è questa volontà e in che senso fa dell’Io il portatore dell’etica? In un’altra entrata Wittgenstein annota: “Come la mia rappresentazione è il mondo, così la mia volontà è la volontà del mondo” (TB 17.10.16).
Non è semplice dare un senso a queste affermazioni.[26] Mi limito a poche osservazioni. Il passo appena citato ci ricorda che il mondo di Wittgenstein, benché sia senza soggetto, nel senso che il soggetto non si dà come un elemento identifi cabile in esso, è un mondo soggettivo, è, cioè, un mondo coordinato a un Io. Esso sembra stabilire un’analogia: come la mia rappresentazione è il mondo, così la mia volontà è la volontà del mondo. Come si può intendere questa volontà?
È chiaro che, se l’Io che vuole è il soggetto metafi sico, esso non è nel mondo; di conseguenza la sua azione non può avere effetti nel mondo, non può modifi care il mondo: “Il mondo è indipendente dalla mia volontà” (TLP 6.373).
D’altra parte, Wittgenstein sostiene anche che “bene e male non interviene che attraverso il soggetto” (TB 2.8.16). Ma come? Come può la volontà del mondo avere ad oggetto tutto ciò che accade, la totalità dei fatti?
L’azione della volontà, più che una modifi cazione del contenuto del mondo, sembra essere “[...] una presa di posizione del soggetto verso il mondo” (TB 4.11.16). La mia volontà è la volontà del mondo nel senso di un atteggiamento che assumo verso il mondo: “Se il volere buono o cattivo àltera il mondo, esso può alterare solo i limiti del mondo, non i fatti, non ciò che può essere espresso dal linguaggio” (TLP 6.423).
In virtù di quest’alterazione il mondo può divenire “un altro mondo” come “[...] il mondo del felice è un altro mondo che quello dell’infelice”. Wittgenstein usa un’immagine che rinvia alle fasi lunari: “[...] esso deve, per così dire, decrescere o crescere in toto” TLP 6.43). Tutto ciò è assai diffi cile da decifrare.[27] Un punto è comunque chiaro: se i limiti del mondo sono quelli del possibile, essi non possono essere alterati dalla volontà. L’unico cambiamento che la volontà può produrre in tali limiti è nel modo in cui, per così dire, il possibile ci tocca: la persona felice è quella che non patisce i limiti del mondo come limitazioni ma li accetta come condizioni per la possibilità del proprio volere.[28] Questa, credo, è la chiave per intendere perché lo sguardo artistico, in quanto sguardo “dal di fuori”, sia felicitante e perché l’affermazione che etica ed estetica sono tutt’uno spieghi l’attribuzione all’etica di un carattere trascendentale.
Secondo Wittgnstein, come si è visto, bene e male intervengono, attraverso il soggetto: “Io voglio chiamare “volontà” soprattutto il portatore di buono e cattivo” (TB 21.7.16).
Ora, sembra che l’azione della volontà buona sia l’assunzione di un atteggiamento di accettazione del mondo che è il mio mondo, e che l’azione della volontà cattiva sia un atteggiamento di rifi uto: “[...] per vivere felice – scrive Wittgenstein – devo essere in armonia con il mondo” (TB 8.7.16).[29] La differenza tra la persona felice e quella infelice è nel modo in cui accolgono il mondo: l’identico mondo dei fatti diventa in ciò, per l’una e per l’altra, un “altro” mondo. L’idea che Wittgenstein sembra faticosamente elaborare, collegando la volontà al soggetto metafi sico, è che per la “volontà” intesa come portatore dell’etica ciò che conta non è il decidere di fare una cosa piuttosto che un’altra, non è ciò che si fa nel mondo, bensì l’atteggiamento verso il mondo. Felicità e infelicità non sono eventi: il mondo non diventa da felice infelice o viceversa; piuttosto cessa in toto di essere un mondo felice o infelice;34 e questo per qualcosa come una differenza di Gestalt.
La prospettiva delineata offre un senso al tipo di riconciliazione con la vita cui Wittgenstein sembra tendere. Tale riconciliazione ha al centro una “rimozione” del soggetto morale – della volontà – dal mondo e dunque una presa di distanza dal mondo dei desideri e delle passioni. Possiamo collegare retrospettivamente questa mossa all’idea di Wittgenstein che il valore non sia nel mondo. Essa è però, insieme, ciò che lo porta a sostenere che l’etica è trascendentale. La qualifi cazione “trascendentale” indica che l’etica è connessa al mondo, ma insieme avverte che il suo “contenuto” scompare, se si tenta di farlo rientrare nel mondo - in tal senso l’etica è anche “trascendente” (TB 30.7.16). Come la logica, l’etica non “rappresenta”, non si occupa di una specie particolare di fatti, diversi da quelli di cui si occupano le scienze naturali. Piuttosto – proprio come la logica – essa ha natura di condizione del mondo (cf. TB 24.7.16): non della sua conoscenza, della sua costruzione logica, bensì del suo senso, del suo valore.
Attribuire all’etica un carattere di condizione, vuol dire considerarla fondamentalmente un atteggiamento, un modo di vedere il mondo. Ed è appunto perché la concepisce in questo modo, che Wittgenstein può richiamare, in funzione esplicativa del carattere trascendentale dell’etica, la connessione di etica ed estetica ovvero di etica e arte. Semplifi cando: se il modo di vedere artistico è essenzialmente un vedere il mondo “con occhio felice”, allora che un oggetto sia un’opera d’arte non dipende tanto da come esso è, quanto dal modo in cui lo si guarda. Similmente con l’etica: a rendere la vita buona non sono tanto i suoi contenuti, quanto il modo in cui la si accoglie come la propria vita, il proprio mondo. Vedere il mondo con occhio felice è comprendere che il senso del mondo, il valore che può rendere “nonaccidentale” ogni “avvenire ed essere-così” non ha a che fare con stati di cose nel mondo ma piuttosto con “[...] un atteggiamento o stile nell’accettazione di tutti i fatti”.[30] Tale atteggiamento non aggiunge né toglie qualcosa ai fatti, bensì “modella” ciò che abbiamo davanti come la situazione che si accetta. La mia volontà può diventare la volontà del mondo, la vita una vita felice, sensata, se al mondo guardo con l’occhio felice dell’arte. Sembra essere questo, in ultima analisi, ciò cui Wittgenstein vuol renderci attenti, affermando l’unità di etica ed estetica. Vorrei ora, conclusivamente, dire qualcosa a commento della prospettiva che egli suggerisce.
La concezione di Wittgenstein colpisce per la sua profondità e insieme per gli aspetti di paradossalità che presenta. Molti di noi pensano che felicità e infelicità abbiano a che fare con situazioni di appagamento o frustrazione, soddisfazione o perdita, che bene e male siano proprietà di comportamenti, azioni, situazioni particolari, che attribuiamo secondo criteri spesso contestabili ma comunque defi nibili e non siano riducibili a un modo di vedere.[31] Il signifi cato che Wittgenstein attribuisce a “bene” e “male”, così come il modo in cui intende l’arte, appaiono piuttosto particolari e lontani dal senso comune. Ciò che lo interessa non ha molto a che fare con ciò su cui vertono abitualmente le discussioni etiche o estetiche, eppure ha un rapporto con esse e le sue rifl essioni risultano illuminanti riguardo a un aspetto cruciale.
Come si è visto, TU è formulata nel contesto di un argomento sul valore e la non formulabilità dell’etica, apparentemente con intento esplicativo in merito al carattere trascendentale dell’etica. Secondo l’interpretazione proposta, in TU non è tanto in questione un’identità di ambiti, quanto una radice comune nell’atteggiamento – esemplifi cato dall’arte - che apre alla percezione del valore, del senso. Ciò che Wittgenstein suggerisce è una concezione normativa al cui centro sta un modo di vedere il mondo che è lo stesso dell’arte. Egli lo descrive come un vedere il mondo come un miracolo. È chiaro che ciò non ha molto a che fare con la defi nizione di criteri d’azione o di giudizio; contiene tuttavia un’indicazione sulla fonte del valore:
Bene e male non interviene che attraverso il soggetto. Ed il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo. […] ad essere buono o cattivo è il soggetto che vuole. […] buono e cattivo sono predicati del soggetto, non proprietà del mondo. (TB 2.8.16).
Buono e cattivo è essenzialmente solo l’Io, non il mondo. (TB 5.8.16).
Per Wittgenstein bene e male non sono proprietà dei fatti; la presenza di bene e male è subordinata all’esistenza di un soggetto, di un Io che vuole.
Nella Conferenza egli mostra di considerare più o meno sinonime le espressioni “l’etica è la ricerca su ciò che è bene” e “l’etica è la ricerca su ciò che ha valore”. La convinzione espressa nei due appunti citati può essere riformulata, dicendo che, per Wittgenstein, non c’è un valore oggettivo, cioè un valore che sussiste indipendentemente dall’esistenza di soggetti di volontà.[32] La presenza del valore è subordinata all’esistenza di un Io che vuole; è importante tener presente di quale valore sta parlando Wittgenstein.
Nella Conferenza egli formula una distinzione tra “senso corrente, o relativo” e “senso etico, o assoluto” di “buono”, “valore”, “importante”, “giusto”, ecc., e tra “giudizio assoluto di valore” e “giudizio relativo” e commenta:
Ogni giudizio di valore relativo è una pura asserzione di fatti e può quindi essere espresso in una forma tale da perdere del tutto l’aspetto di un giudizio di valore.
L’esempio fornito subito dopo è emblematico di ciò che Wittgenstein intende:
Invece di dire “Questa è la via giusta per Granchester”, avrei potuto dire altrettanto bene “Questa è la via giusta che dovete percorrere se volete raggiungere Granchester nel più breve tempo possibile”.
Wittgenstein sembra collegare la distinzione tra valore assoluto e valore relativo a quella tra imperativo categorico e imperativo ipotetico. Tradotto nella forma di un imperativo ipotetico, il giudizio di valore relativo risulta un’attribuzione di valore relativa a un fi ne: esso diventa un’asserzione su una relazione tra uno stato mentale e certi dati del mondo esterno, perdendo così l’aspetto di giudizio di valore. Secondo Wittgenstein, infatti, “[...] nessuna asserzione di fatti può mai essere, o implicare, un giudizio di valore assoluto” (LE, 5-6/8-9).
Egli pensa che lo stesso valga per i nostri stati mentali; anch’essi, intesi come stati psicologici passibili di descrizione, non sono, in senso etico, né buoni né cattivi. Quando sostiene che “[...] bene e male non interviene che attraverso il soggetto”, Wittgenstein non sta, dunque, dicendo che i fatti diventano buoni o cattivi a seconda dell’effetto psicologico che hanno su di noi (cf. LE, 6/10). Quest’effetto è ancora un fatto e l’etica, il valore in senso assoluto, appartiene a un ordine diverso da quello dei fatti.
Sembra tuttavia che anche il valore in senso assoluto risulti da una relativizzazione: non tanto a dei fi ni quanto al soggetto di fi ni, cioè alla volontà. La distinzione tra valore relativo (a un fi ne) e valore in senso assoluto sembra esprimibile richiamando l’idea di una volontà incondizionata (cf. LE, 7/11-12). C’è forse un’eco kantiana nelle osservazioni di Wittgenstein. Egli afferma che l’esistenza di stati di cose corrispondenti al comando, o al giudizio di valore, espressi in un imperativo categorico “è una chimera”. Nessuna situazione possiede quello che egli vorrebbe chiamare “[...] il potere coercitivo di un giudice assoluto” (LE, 7/12). Nessuna situazione, potremmo dire, ha l’autorità della ragion pratica, della volontà pura kantiana. Che cosa si ha allora in mente, che cosa si cerca di esprimere, quando si usano espressioni come “bene assoluto” o “valore assoluto”?
Come si è visto, Wittgenstein richiama l’esperienza di meraviglia per l’esistenza del mondo appunto come uno dei casi – anzi il caso per eccellenza - in cui egli farebbe uso di queste espressioni. Suggerire che l’adozione di una prospettiva etica – il riferimento al pensiero di un valore in senso assoluto - sia tutt’uno con un atteggiamento di fondo verso il mondo di cui è parte la capacità di vedere “che i fatti del mondo non son poi tutto” (TB 8.7.16) è assai suggestivo. Nello stesso tempo appare, però, anche piuttosto singolare sia rispetto al modo in cui apprendiamo modi d’agire morali, sia rispetto alle pratiche di giustifi cazione dei giudizi morali. Forse ciò che Wittgenstein vuol produrre è una sorta di riorientamento. In effetti, la sua affermazione dell’unità di etica ed estetica ha l’effetto di un richiamo a qualcosa che appare estremamente importante per la vita etica e cioè al fatto che la radice di tale vita non è nelle preoccupazioni teoriche sulla possibilità di una conoscenza del bene, sull’esistenza di valori o sulla defi nizione del bene ovvero non è in quelle che Wittgenstein chiamava “le chiacchiere sull’etica” (WWK, 69/24). Piuttosto, l’etica ha a che fare con l’“esperienza” di un incondizionato quale si dà nella percezione del carattere miracoloso del mondo ovvero con una presa di posizione della volontà che mette la vita in relazione al valore assoluto. La vita buona è, nella sua radice, una forma di vita che fa posto a questa relazione. Detto in termini più concreti: l’etica non fa la sua comparsa nel momento della deliberazione, della scelta pratica; piuttosto, essa confi gura il modo in cui le situazioni sono comprese; si tratta di qualcosa come un atteggiamento che penetra il dire e il fare.[33] Il senso del suo essere trascendentale è lo stesso per cui si può dire che essa concerne una forma soggettiva di vita.
Rispetto all’etica così intesa, il ruolo dell’arte – o dell’estetica - sembra quello di un punto d’entrata.39 L’arte è vista da Wittgenstein come il luogo dell’esperienza dell’esserci delle cose, o del mondo, come miracolo e dunque di un’esperienza che per lui si collega al pensiero di un valore in senso assoluto, cioè di un valore non relativo a scopi o desideri contingenti. In tal senso essa equivale a un modo del tutto particolare di percepire le cose, ne confi gura l’esperienza così come è proprio anche dell’etica.
Questa riconduzione dell’etica a una posizione soggettiva può suscitare perplessità. La concezione di Wittgenstein ha una coloratura soggettivistica con riguardo alla fonte del valore perché riporta l’importanza etica delle cose alla volontà: “‘Signifi cato’ le cose acquistano solo per il loro rapporto alla mia volontà” (TB 15.10.16).
Facendo della volontà la fonte del valore, Wittgenstein s’impegna a sostenere che un mondo senza un soggetto metafi sico ovvero senza esseri capaci di adottare la posizione di soggetto metafi sico non contiene niente che sia di valore. Una separazione così radicale di fatti e valori appare discutibile. Forse, più che questa è però quella appena evocata l’obiezione di fondo che potrebbe essere rivolta a Wittgenstein o, almeno, quella è l’obiezione che qui prenderò in considerazione.
Le osservazioni di Wittgenstein non contengono giudizi di valore, imperativi, o indicazioni pratiche. L’unico imperativo implicito è forse quello di guardare il mondo nel modo esemplifi cato dall’arte. L’etica appare ristretta a una prospettiva personale, di prima persona, sul mondo. Potrebbe allora sembrare – questo il cuore dell’obiezione – che il valore o il bene siano questione di scelta individuale, siano rimessi all’arbitrio dei singoli. L’obiezione sembra tanto più legittima perché il carattere trascendentale dell’etica non è del tutto assimilabile a quello della logica. Pur considerandole dei casi-limite, Wittgenstein riconosce che vi sono proposizioni della logica e che esse, appunto perché sono genuine proposizioni, mostrano, rispecchiano la struttura del mondo. Per contro, egli sostiene che non vi sono proposizioni dell’etica – essendo non accidentale, il valore non può essere espresso in proposizioni bipolari –: l’etica non si esplica nella creazione di qualcosa di simile allo spazio logico. Il mondo della visione sub specie aeternitatis è un mondo personale, è il mondo visto da ciascuno con un signifi cato che deriva dal suo modo di guardare, dall’atteggiamento di fondo che egli ha verso il mondo.
Ora, è innegabile che, nella concezione di Wittgenstein, in un senso, ciò che chiamiamo “valore” è qualcosa che può essere compreso solo adottando una particolare prospettiva sulle cose. L’etica e l’estetica hanno un’essenziale dimensione soggettiva; questo non signifi ca, però, dipendenza da tratti individuali, da particolarità soggettive; signifi ca, piuttosto, che nell’etica, cioè, per Wittgenstein, rispetto a ciò che è realmente importante, che rende la vita sensata, meritevole di essere vissuta, il punto d’appoggio non può che essere in quel “centro del mondo che chiamiamo l’Io”, cioè nella volontà. Si può certo dubitare che vi sia qualcosa come un punto di vista ultimo del valore; non credo, però, che dalla posizione di Wittgenstein consegua una connotazione soggettivista della nozione di valore perché la volontà da cui egli fa dipendere il valore non è la volontà come fenomeno psicologico, bensì la volontà che può costituire il solo bene intrinseco, incondizionato, cioè la volontà che è “il portatore dell’etica”, che può rendere il mondo “felice”.[34] Ciò che Wittgenstein promuove non è una soggettivizzazione del valore, bensì la consapevolezza che l’etica è, nella sua radice più profonda, una questione personale, di atteggiamento verso il mondo. Affermando che etica ed estetica sono tutt’uno, Wittgenstein mira probabilmente a mettere in luce questa realtà. Certo, per farlo egli poggia su una comprensione piuttosto particolare dell’arte – dell’estetica – in cui viene in primo piano il suo essere un modo di strutturare l’attenzione alle cose.
ABSTRACT: The early Wittgenstein conceived of ethics and aesthetics as one and the same. This essay aims to provide an interpretation of this idea. It examines the way it is put forward in the Tractatus and in some remarks from the Tagebücher 1914-1916, and argues that the unity of ethics and aesthetics is for Wittgenstein a way of looking at the world in such a way that the world does not appear to set limits for human life. Ethics extends the ability to confer meaning that men and women use in the realm of art-making, dealing with particular objects, to the realm of life and of the world taken as a whole. Claiming that ethics and aesthetics are one Wittgenstein points out that at the roots of ethics there is a certain way of looking at the world, a certain disposition towards life. This point of view on the world does not attribute value to the world because of the way it is. The world is seen, instead, as a source of wonder, and it is this fact that makes it valuable.
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[1] Gabriele Tomasi è docente di Storia dell’Estetica presso l’Università degli Studi di Padova. Ha pubblicato diversi saggi su Leibniz, Kant e Wittgenstein in riviste e volumi. Tra i suoi lavori: La bellezza e la fabbrica del mondo. Estetica e metafi sica in G.W. Leibniz (2002); Ineffabilità. Logica, etica, senso del mondo nel “Tractatus” di Wittgenstein (2006); Un bicchiere con Hume e Kant. Divertissement estetico-metafi sico (2010).
[2] Nel testo e nelle note le opere di Wittgenstein sono citate – nella traduzione italiana indicata – secondo le abbreviazioni di seguito elencate (nel caso del Tractatus si indica soltanto il numero della proposizione; nel caso delle annotazioni dai Quaderni, invece, la data dell’entrata): BvF = WITTGENSTEIN, L. Briefe an Ludwig von Ficker. hrsg. von G. H. von Wright unter Mitarbeit von
https://doi.org/10.1590/S0101-31732011000400008
[3] Conseguentemente, quando parlerò della concezione di Wittgenstein è inteso che il riferimento è a idee formulate dal fi losofo nel periodo di elaborazione del Tractatus o comunque riconducibili a posizioni sostenute in tale periodo.
[4] Adotto qui una distinzione proposta da KORSGAARD, 1983, p. 178.
[5] Cf. ad esempio Fedro 250 a ss.; Simposio 210 a ss.
[6] S. Th. I-II, q 27 a 1 (TOMMASO, 1996, vol. 2 p. 222-223). 8 SCHILLER, 2005, p. 25; 45 (lettere II e X).
[7] Devo l’osservazione a WILDE, 2004, p. 165.
[8] Va da sé che le distinzioni andrebbero affi nate. Ad esempio, la sovrapposizione metafi sica di bellezza e bene può essere intesa come una relazione di identità oppure, secondo una linea kantiana, come una relazione simbolica.
[9] Ovviamente, quanto alla bellezza, il discorso dovrebbe essere circostanziato. Per molta arte recente essa non è più il valore da realizzare. Cf. DANTO, 2008.
[10] Devo il punto a MULHALL, 2007, p. 225-226.
[11] In una proposizione successiva comparirà il termine “Dio”: “Come il mondo è, è affatto indifferente per ciò che è più alto. Dio non rivela sé nel mondo” (TLP 6.432).
[12] La forma generale della proposizione è lo strumento logico che consente una descrizione dall’interno, nell’unico modo possibile, dello spazio logico, cioè di quello che, per Wittgenstein, è ad un tempo lo spazio del pensabile, lo spazio di mondo e linguaggio. Tale spazio è propriamente il luogo della conoscenza del mondo.
[13] Cf. MAYER, 2001.
[14] “[…] il senso del libro – scrive Wittgenstein a von Ficker - è un senso etico […] il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella più importante. Ad opera del mio libro, l’etico viene delimitato, per così dire, dall’interno; e sono convinto che l’etico è da delimitare rigorosamente solo in questo modo” (BvF, 32-34/72).
[15] Questo non signifi ca che vi sia da un lato un mondo “là fuori” e, dall’altro, un sistema di rappresentazione. Per Wittgenstein è nel linguaggio strutturato dalla logica ovvero nello spazio logico che il mondo ci è dato, che conosciamo il mondo. Cf. VOSSENKUHL, 1995, p. 111-115. 18 Ibidem, p. 112.
[16] Questo è quanto Wittgenstein sostiene nella Conferenza: “[...] l’espressione giusta nella lingua per il miracolo dell’esistenza del mondo, benché non sia alcuna proposizione nella lingua, è l’esistenza del linguaggio stesso” (LE, 11/17).
[17] In effetti, Wittgenstein stesso, in una conversazione con Waismann del dicembre 1930, si avvale della nozione di creazione per esprimere il senso dell’assoluta datità del mondo: “I fatti per me non sono importanti. Ma a me sta a cuore quel che intendono gli uomini quando dicono che ‘il mondo c’è’. Waismann domanda a Wittgenstein: L’esistenza del mondo è connessa con l’etico? Wittgenstein: Che si dia, qui, una connessione, gli uomini l’hanno sentito e l’hanno espresso così ‘Il Padre ha creato il mondo, il Figlio (o la Parola, che da Dio procede) è l’Etico’”(WWK, 118/27).
[18] L’idea di un “fuori del mondo” inevitabilmente veicola quella del mondo come limitazione. Come vedremo, secondo Wittgenstein non è però così che dovremmo considerare il mondo, bensì come un campo di possibilità per la volontà: tutto ciò che c’è, avrebbe potuto essere diversamente senza che per questo vi sia nel come del mondo una differenza eticamente rilevante.
[19] L’espressione sub specie aeternitatis è spinoziana, ma la fonte diretta di Wittgenstein è verosimilmente Schopenhauer. Sull’importanza di quest’autore per Wittgenstein, cf. GLOCK, 1999.
[20] Cf. SCHOPENHAUER, 2002, § 36: “l’arte […] strappa l’oggetto della sua contemplazione dal fl usso universale delle cose e se lo pone davanti isolato; e questo oggetto, che era in quel fl usso una parte infi nitamente piccola, diviene per essa qualcosa che rappresenta il tutto”. 24 Cf. WILDE, 2004, p. 173-175 per un commento esteso dell’annotazione.
[21] Così anche MORRIS, 2008, p. 326. È suggestivo pensare che ciò che Wittgenstein vede trasparire tra le maglie della rete logica sia quello stesso miracolo dell’esserci che è rivelato dall’arte.
[22] MORRIS, 2008, p. 326.
[23] Per l’analoga posizione in Schopenhauer, secondo il quale nella contemplazione estetica il soggetto diventa “l’unico occhio del mondo”, cf. SCHOPENHAUER, 2002, § 38. Il grande e complesso tema del solipsismo, che qui è appena sfi orato, costituisce per più aspetti lo sfondo dell’etica wittgensteiniana. Per la sua trattazione cf. SULLIVAN, 1996, MORRIS, 2008, p. 263-308; VOSSENKUHL, 2008, p. 89-118.
[24] Cf. MORRIS, 2008, p. 299.
[25] “Mio” non defi nisce in questo caso una sfera privata. Dal fatto che il mondo è il mio mondo non consegue che ognuno ha il proprio mondo. Ciò che è personale nella relazione al mondo non appartiene ai fatti, non è una differenza che possa caratterizzare il contenuto del mondo. Cf. BELL, 1992.
[26] Per un esame delle numerose e intriganti osservazioni dei Quaderni dedicate alla volontà, cf. ISHIGURO, 1981.
[27] Per l’interpretazione cf. SCHULTE, 2001 e, sull’immagine del crescere e decrescere, MULHALL, 2007.
[28] Cf. MULHALL, 2007, p. 234.
[29] Come si è ricordato, Wittgenstein sostiene che “il mondo e la vita sono tutt’uno” (TLP 5.621). Poiché il mondo è la totalità dei fatti, il signifi cato di “vita” in quest’affermazione non può essere inteso in senso fi siologico o psicologico; sotto questi aspetti la mia vita non è che un insieme di fatti nel mondo. Che cosa si debba intendere per “vita” lo suggerisce forse l’affermazione di Wittgenstein che “alla morte il mondo non si altera, ma termina” (TLP 6.431). “Vita” sembra indicare qualcosa come l’apparire stesso (la rappresentazione) del mondo, del mio mondo. 34 Così ULE, VARGA von KIBÉD, 1998, p. 46.
[30] MURDOCH, 1993, p. 28.
[31] Lo stesso si può dire dell’arte. Si tende a pensare che un oggetto sia un’opera d’arte perché ha certe proprietà (intrinseche o relazionali) e non semplicemente perché è visto in un certo modo. Se lo status di opera d’arte fosse conferito da una visione, tutto potrebbe diventare arte e non avrebbe più senso tentar di distinguere tra ciò che è arte è ciò che non lo è.
[32] È molto interessante, al riguardo, il seguente appunto di Waismann: “Schlick dice che nell’etica teologica si danno due concezioni dell’essenza del Bene: secondo l’interpretazione più superfi ciale, il Bene è bene, perché Dio lo vuole; secondo l’interpretazione più profonda, Dio vuole il bene perché è bene. Io penso che sia più profonda la prima concezione: Bene è ciò che Dio ordina. Infatti, taglia la strada a ogni possibile spiegazione del ‘perché’ sia bene, mentre proprio la seconda concezione è superfi ciale, razionalistica, operando ‘come se’ ciò che è bene potesse essere ulteriormente fondato. La prima concezione esprime chiaramente che l’essenza del Bene non ha nulla a che fare con i fatti e quindi non può essere spiegata da nessuna proposizione. Se vi è una proposizione che esprime ciò che intendo, è: Bene è ciò che Dio ordina”(WWK, 115/24-25).
[33] Così anche WILDE, 2004, p. 181. 39 Cf. MERSCH, 2009, p. 36.
[34] Resta tuttavia un dubbio. L’interpretazione proposta attribuisce valore intrinseco alla volontà ovvero a ciò che conferisce valore alle cose. Si potrebbe pensare che la volontà ha valore perché conferisce valore. In generale non pensiamo, però, che la fonte di qualcosa di valore debba essere per sé di valore. Come rilevano fi losofi camente Rae Langton (cf. LANGTON, 2007, p. 176) e poeticamente Fabrizio De André (cf. Via del campo), dal letame nascono fi ori splendidi, ma non gli attribuiamo un particolare valore (diversamente dai diamanti, dai quali però non nasce niente). Come stanno le cose con la volontà? Il suo valore è indipendente, oggettivo? Oppure è essa stessa a conferirsi valore? Come si può dire se il suo valore è intrinseco? Wittgenstein, come si è visto, parlando del bene assoluto accenna al comando di un giudice assoluto. È pensabile che il bene sia comandata da un tale potere, ma non abbia origine in esso. Anche il modo in cui egli risolve l’alternativa di Schlick – evocativa di quella dell’Eutifrone platonico (cf. XII a) - lascia aperta questa possibilità: il bene che Dio ordina può essere un bene scoperto e non deciso da Dio. In altri termini, Dio può essere il legislatore, l’autore dell’obbligazione, senza essere il creatore del bene. Similmente, la volontà può avere un valore intrinseco, senza conferirsi da sé tale valore. C’è un indizio a favore di quest’ipotesi e cioè la contrarietà di Wittgenstein al suicidio (cf. TB 10.1.17 che però si chiude in forma dubitativa). È come se qualcosa, per Wittgenstein, ponesse qui un limite invalicabile; ma che cosa può essere? È possibile che sia proprio il valore intrinseco della volontà. Si può pensare che la volontà non sia in grado di dar valore alle cose, alla vita, ma questo non vuol dire che essa sia priva di valore. Forse essa ha valore, anche se non si conferisce valore. Se così non fosse, non ci sarebbe nulla di sbagliato nel suicidio, quando – come capitava spesso al giovane Wittgenstein - ci si giudica privi di valore e la vita ci appare priva di signifi cato.